La poesia Il treno degli emigranti di Gianni Rodari è una piccola lente per guardare uno dei dolori più profondi e silenziosi del Novecento italiano, l’emigrazione.
Siamo negli anni Cinquanta, in un’Italia che si svuota lentamente, vagone dopo vagone, di uomini e donne in cerca di lavoro, di dignità, di futuro, e Rodari, con la sua inconfondibile umanità partecipe, riesce a fermare quel momento, non con la freddezza di un cronista, ma con la tenerezza di chi ascolta.
Il suo linguaggio, semplice solo in apparenza, tocca corde universali, le parole scorrono leggere, quasi in rima, come in una filastrocca, ma sotto la musicalità si sente un dolore sottile, la malinconia di chi parte e non sa se tornerà. È una ninnananna amara, che culla la nostalgia e la speranza insieme.
Gianni Rodari, ancora una volta, si schiera dalla parte dei “piccoli” della storia, i dimenticati, i volti senza nome che riempiono i treni e i ricordi. E lo fa senza retorica, con una poesia che non grida, ma ricorda. È un inno alla dignità umana, alla compassione, alla capacità di vedere nell’altro non uno straniero, ma un frammento di noi stessi.
Perché, in fondo, Rodari ci insegna che ogni viaggio, anche quello più duro, più lontano, porta con sé una storia che merita rispetto, memoria e ascolto.
Il treno degli emigranti di Gianni Rodari
Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio
per non restare solo in viaggio…
Un vestito, un pane, un frutto,
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuol venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
ma il treno corre: non si vede più.
Gianni Rodari
tratta dalla raccolta “Un treno carico di filastrocche”
Oggi quella valigia non è più di cartone o legata con lo spago, oggi è colorata e spesso ha le ruote, ma per fame continua a viaggiare.
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