Non è prima volta che gli Stati Uniti decidono di colpire un paese sovrano senza essere stati attaccati. È successo di nuovo. Nella notte, mentre gran parte dell’Europa dormiva, gli Stati Uniti hanno colpito i siti nucleari iraniani. Un attacco chirurgico, lo chiamano. Ma di chirurgico, stavolta, c’è solo la precisione con cui è stato affondato il colpo nella già fragile pace globale.
A dare l’ordine è stato Donald Trump. Sì, proprio lui, quello che si era presentato come il presidente del ritiro, il “pacifista” che avrebbe meritato il Nobel per la Pace. E invece, eccolo lì, a braccetto con Benjamin Netanyahu, a spiegare che per ottenere la pace… serve la forza. Ma quante volte abbiamo sentito questa storia?
La verità è che si tratta dell’ennesima violazione del diritto internazionale. L’ennesima volta in cui un paese viene colpito senza aver attaccato. E ogni volta, una nuova giustificazione, una nuova bugia, una nuova ferita aperta nel sistema delle regole globali.
Le bugie dietro il bombardamento. Trump ha provato a giustificare tutto, certo. Ha parlato di minacce, di sicurezza, di pericolo imminente. Ma c’è un piccolo problema: l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, aveva già detto chiaramente che l’Iran non ha armi atomiche. E nemmeno era vicino a costruirle.
Anzi, esisteva un accordo: quello del 2015, voluto da Obama, per permettere solo usi civili dell’energia nucleare. Un’intesa diplomatica, concreta, che funzionava. Ma Trump l’ha stracciata nel 2018 come fosse un contratto qualunque. Un gesto che molti esperti definiscono oggi una delle sue più grandi sciocchezze politiche.
Un colpo alla democrazia, non al regime. L’idea di colpire l’Iran “per portare la democrazia” è un’illusione pericolosa. Perché ogni volta che è successo qualcosa di simile, il risultato è stato l’opposto. In Iran, l’attacco rafforza proprio chi dovrebbe essere indebolito: gli Ayatollah, i Pasdaran, il potere religioso e militare. Si può già prevedere la nascita di uno “Stato islamico 2.0”, ancora più rigido, più violento, più determinato.
L’esportazione della democrazia con le bombe non ha mai funzionato: in Iraq ha prodotto l’ISIS, in Afghanistan ha riportato i talebani, in Libia ha lasciato un vuoto che ancora oggi fa paura. Eppure, si continua.
Instabilità globale e un’Europa senza voce. Teheran ha reagito: “Guerra totale”, ha detto. E non è solo una frase. L’equilibrio globale si incrina ogni volta che si agisce così. Ogni bomba sganciata moltiplica il rischio di attentati, di nuove radicalizzazioni, di nuovi nemici. E l’Europa? L’Europa osserva. Debole, divisa, una “macedonia di stati” incapaci di dire la loro. Il suo ruolo sulla scena internazionale è sempre più quello di spettatore. Anche l’Italia, in questo scenario, resta ai margini.
Intanto, si sacrificano sicurezza e interessi energetici, in nome di una fedeltà cieca a decisioni prese altrove.
Trump e Netanyahu: due volti della stessa guerra. E poi ci sono loro. I protagonisti. Trump, ormai ex presidente, inaffidabile, impulsivo, impresentabile. Si è dipinto come pacificatore, ma ha lasciato dietro di sé un deserto di diplomazia. Netanyahu, ancora più controverso: accusato di crimini di guerra, con un mandato d’arresto internazionale e sospetti di genocidio a Gaza. Eppure, ancora lì, a stringere le redini di una guerra che sembra servirgli più della pace.
Gaza, il mondo che implode e le vite che non contano. E nel frattempo, mentre i riflettori sono sull’Iran, Gaza continua a morire nel silenzio. Si parla di 60.000 morti, di cui 25.000 bambini. Gli ospedali colpiti, gli aiuti bloccati. Uno scenario da incubo, che non può più essere ignorato. Ma qui emerge qualcosa di ancora più inquietante: non tutte le vite valgono allo stesso modo. Una morte a Gaza sembra pesare meno di una a Kiev, meno di una a Roma. Come se l’umanità si misurasse a zone. E quegli orfani, quei bambini senza più niente, cresceranno. E c’è chi teme che cresceranno con un solo pensiero: la vendetta.
Un invito a indignarsi. Questa non è solo una guerra lontana. È un’implosione di valori. Un mondo dove il profitto conta più della vita. Dove le armi muovono i mercati, e le bombe decidono le sorti dei popoli. Ed è proprio per questo che non si può restare a guardare. Non possiamo più credere alla favola della democrazia esportata a suon di missili. Le democrazie non si costruiscono dall’alto, né sotto dettatura: nascono dal basso, dai popoli, dalla libertà. Gli italiani lo sanno: più dell’80% è contrario al riarmo. Ma la narrazione va da un’altra parte. Si chiede una “Europa forte”, ma che tipo di forza intendiamo?
Allora, ecco l’appello:
Basta bombe. Basta guerra. Basta genocidi. Basta menzogne.
Se davvero vogliamo la pace, dobbiamo iniziare a pretenderla, non a prometterla con un fucile in mano.