Un uomo in mutande. I casi del maresciallo Ernesto Maccadò, un romanzo giallo di Andrea Vitali, pubblicato nel 2020. Torna il maresciallo Ernesto Maccadò, personaggio che partecipa a molti romanzi precedenti, che si trova per le mani un caso che forse non lo è, o forse sì. Un caso che mette alla prova le sue doti di buon senso.
«Un uomo in mutande?» chiese il maresciallo Ernesto Maccadò. Nessuna traccia di sorriso. Anzi, un’espressione che valeva un punto interrogativo.
Il Misfatti l’aveva messa sullo scherzo, ma quello, niente, aveva preteso i dettagli invece di riderci su.
«Si spieghi meglio, appuntato», disse il Maccadò.
«Dicevo tanto per…» annaspò il Misfatti.
«L’ascolto comunque», insisté il maresciallo.
12 aprile 1929. È la volta buona. Capita di rado, ma quando è il momento l’appuntato Misfatti si fa trovare sempre pronto. Dipende dall’uzzolo della moglie, che stasera va per il verso giusto. E così, nel piatto del carabiniere cala una porzione abbondante di frittata di cipolle. Poi un’altra, e una fetta ancora, e della frittata resta solo l’odore.
Che non è buona cosa, soprattutto perché ha impregnato la divisa, e chi ci va adesso a fare rapporto al maresciallo Ernesto Maccadò diffondendo folate di soffritto? Per dirgli cosa poi?, che durante la notte appena trascorsa è stato trovato il povero Salvatore Chitantolo mentre vagava per le contrade mezzo sanguinante e intontito, dicendo di aver visto un uomo in mutande correre via per di là? Sì, va be’, un’altra delle sue fantasie. In ogni caso la divisa ha bisogno di una ripulita. Ma proprio energica. Come quella di cui avrebbero bisogno certe malelingue, che non perderebbero l’occasione di infierire sullo sfortunato Salvatore ventilando l’idea di rinchiuderlo in un manicomio.
Anche il Comune, guarda un po’, sta progettando una grande operazione di pulizia, una «redenzione igienica» che doti Bellano delle stesse infrastrutture che vantano già altri paesi del lago, più progrediti nella civiltà e nel decoro. Ma, un momento, che ci faceva esattamente un uomo in mutande, in piena notte, per le vie del paese? E perché correva?
Suo marito dormiva ancora. Meno male.
Lei invece non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Cioè, per quello che era restato della notte dopo che lui era ritornato all’improvviso.
Una fortuna abitare in quella casa così strana, le aveva permesso di guadagnare tempo. Comunque erano stati secondi, quanti?, di puro terrore quando lei e l’altro avevano sentito sbattere il portone, poi i passi nell’atrio e infine quelli che salivano verso la porta d’ingresso. Chiusa, ovvio, con quattro mandate e pure il catenaccio. D’altronde, una donna sola, di notte… Nonostante tutto non c’era stato tempo da perdere. Nemmeno quello per vestirsi. Lui, soprattutto.
«Calati», gli aveva detto.
Dalla finestra di camera, niente di che, due metri di salto.
E i vestiti?
«Te li butto, poi arrangiati», aveva ordinato sbrigativa, indossando una vestaglia e sparendo di sotto.
Solo dopo, quando il marito le aveva riassunto le ragioni dell’inatteso ritorno, rimandando a più tardi una spiegazione completa, rientrata in camera da letto s’era accorta di quell’affare sul pavimento. Un portafoglio. Anzi, il portafoglio. Di lui, che nella concitazione del momento, quando lei aveva arraffato i vestiti e glieli aveva lanciati dalla finestra, era scivolato da una tasca. Dei pantaloni, della giacca? Cosa diavolo importava! L’importante era che fosse entrata lei per prima in camera, suo marito ancora di sotto a bere qualcosa prima di raggiungerla. Con un calcetto l’aveva sbattuto sotto il letto. Per il momento non aveva potuto fare altro. Poi aveva passato il resto della notte a riflettere su come liberarsene. Quella attuata la mattina seguente le era sembrata la soluzione migliore.
Per fortuna era sabato, suo marito dormiva ancora e senza la serva Basilica, che i fine settimana tornava a casa sua, toccava a lei andare per spese, rifletté Percilla Bisognati in Massamessi uscendo poco prima delle otto del mattino con l’impressione che le si leggesse in viso quello che era accaduto poche ore prima. Addirittura con il timore che qualcuno le potesse chiedere conto di quello strano, anomalo movimento notturno. Invece, con il passare di negozio in negozio, i suoi timori si affievolirono, dimagrendo al punto che quasi non le riuscì più di vederli. E cominciò a darsi della sciocca.
Le massaie che incontrava erano frettolose, donne di casa con mariti padroni e turbe di figli da mettere in riga. Parlavano, ma di cose correnti, prive di ogni interesse per lei. Mariti, appunto, e figli. Il pranzo, la cena. Il tempo, variabile, la malattia di qualcuno. Di tanto in tanto, in mezzo a quelle chiacchiere insulse, la Percilla coglieva una nota stonata, parole che suonavano quasi straniere su quelle bocche abituate a tritare i soliti argomenti. Intuì che c’era in ballo qualcosa di grosso, di importante per il paese. Comunque fosse, non erano affari suoi, non le interessava quel luogo. Con Bellano non voleva averci niente a che fare. Perciò, pur se pizzicata da una superficiale curiosità, non si impegnò a fondo per capire. Cosa che tuttavia le si impose una volta che fu dentro la bottega del macellaio Scazzacolli, ultima tappa del suo giro, stante la fila.
Mentre il beccaro menava precisi colpi di mannaia, le clienti che la precedevano, un occhio comunque attento alla bilancia e al mezz’etto in più che quasi sempre eccedeva l’ordine, non fecero che intercalare con quel binomio: redenzione igienica. Percilla Massamessi ne prese atto. Ma di cosa si trattasse non l’avrebbe saputo dire, né chiese lumi. Però l’avrebbe fatto con suo marito che in qualità di direttore dell’ufficio postale doveva saperne qualcosa. Ripeté tra sé quelle due parole, redenzione igienica. Ecco un bell’argomento per occupare l’ora del pranzo. Neutro come una terra di nessuno. Che suo marito, ne era certa, le avrebbe spiegato con minuzia di particolari, pedante, fino al momento del sonnellino postprandiale.