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SEI QUI: Home » Libro Caffè » Autori Libri » Allende Isabel » Isabel Allende – Il mio nome è Emilia del Valle
Allende Isabel

Isabel Allende – Il mio nome è Emilia del Valle

20 Maggio 2025Updated:20 Maggio 2025Nessun commento6 Mins Read
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Isabel Allende - Il mio nome è Emilia del Valle
Isabel Allende - Il mio nome è Emilia del Valle
Isabel Allende – Il mio nome è Emilia del Valle

Il mio nome è Emilia del Valle è un romanzo di Isabel Allende, pubblicato il 20 maggio 2025, da
Feltrinelli, tradotto da Elena Liverani. A quarant’anni da La casa degli spiriti un nuovo tassello si aggiunge alla saga famigliare dei del Valle. Una storia di amore e guerra, di scoperta e redenzione, raccontata da una giovane scrittrice coraggiosa che si reca in Sud America per scoprire la verità su suo padre e su se stessa.

“Crebbi con l’idea che il mio padre biologico fosse un cileno molto ricco e che mi spettava un’eredità che il destino mi aveva sgraffignato, ma che Dio, nella sua infinita misericordia, mi avrebbe restituito a tempo debito.”

Trama del libro “Il mio nome è Emilia del Valle”

A San Francisco, nel 1866, una suora irlandese, Molly Walsh, abbandonata in seguito a una relazione tormentata con un aristocratico cileno, dà alla luce una figlia di nome Emilia del Valle. Emilia cresce nel cuore di un umile quartiere messicano, da un patrigno amorevole, diventando una pensatrice indipendente e una giovane donna autosufficiente.

“Molly Walsh, mia madre, era nata a New York, da immigrati irlandesi in fuga dalla grande carestia della peronospora. Alla notizia che in California la terra era tempestata di pietre d’oro, suo padre si era unito alle carovane di pionieri che nel 1849 avevano attraversato il continente da est a ovest con la speranza di fare fortuna.”

Per coltivare la sua passione per la scrittura, è disposta a sfidare le convenzioni sociali. All’età di diciassette anni, inizia a pubblicare romanzi pulp usando uno pseudonimo maschile, Brandon J. Price. Quando questi mondi immaginari non riescono più a soddisfare il suo senso dell’avventura, si dedica al giornalismo, convincendo un redattore del “The Daily Examiner” ad assumerla. Lì viene affiancata da un altro talentuoso reporter, Eric Whelan.

“In questo modo cominciò la mia carriera letteraria, se così posso chiamare questa attività. I romanzetti soddisfacevano il mio desiderio di esplorare il mondo oltre la mia limitata realtà. Scrivendo potevo viaggiare ovunque e fare tutto quello che mi veniva in mente.”

Man mano che dimostra il suo valore, la sua irrequietezza ritorna, finché non si presenta l’opportunità di documentare una guerra civile in corso in Cile. Emilia convince il suo editore a mandarla in Cile per coprire una guerra civile con interessi economici e politici statunitensi. Così, nel 1891, si ritrova a Santiago, una città sull’orlo del baratro.

“A quell’epoca Molly Walsh era una ragazza dal viso angelico, cioè con l’espressione beata dei martiri della chiesa, la voce cristallina da usignolo che ha tutt’ora e che trae in inganno, perché è una donna forte e di carattere. “

Ospite della (già nota ai lettori) mitica Paulina del Valle, vive gli scontri in prima linea, s’innamora e riprende contatto con il padre biologico in punto di morte. Emilia dovrebbe tornare a San Francisco, anche per coronare il suo amore, ma decide prima di voler vedere una piccola proprietà terriera, l’unica eredità lasciatale dal padre, nei pressi del lago Pirihueico, in una zona disabitata di inviolata bellezza naturalistica.

Incipit del libro “Il mio nome è Emilia del Valle”

1.

Il giorno del mio settimo compleanno, il 14 aprile 1873, mia madre, Molly Walsh, mi mise l’abito della domenica e mi portò a Union Square per farmi fare una fotografia, l’unica della mia infanzia, in cui compaio in piedi accanto a un’arpa con lo sguardo atterrito di un impiccato a causa di tutto il tempo in cui dovetti trattenere il respiro davanti a una scatola nera e dello spavento che mi presi con il lampo del riflettore. Devo precisare che non so suonare nessuno strumento, l’arpa era uno dei polverosi accessori dello studio, oltre a colonne di cartapesta, vasi cinesi e un cavallo imbalsamato.

Il fotografo era un omino baffuto di origine olandese che si guadagnava da vivere con quel mestiere dai tempi della febbre dell’oro. A quell’epoca i minatori, che scendevano dalle montagne per mettere al sicuro le loro pepite d’oro nelle banche di San Francisco, si facevano scattare una foto da inviare alle loro famiglie quasi dimenticate. Quando dell’oro non rimase che il ricordo, i clienti dello studio divennero le persone altolocate che posavano per i posteri. Noi non rientravamo in questa categoria, ma mia mamma aveva le sue buone ragioni per volere un ritratto di sua figlia. Più per principio che per necessità, mercanteggiò sul prezzo. Che io sappia, non ha mai comprato niente senza togliersi lo sfizio di chiedere uno sconto.

“Già che siamo qui, andiamo a vedere la testa di Joaquín Murieta,” mi disse quando uscimmo dallo studio dell’olandese.

Sull’altro lato della piazza, quello da cui si entrava nel quartiere cinese, mi comprò un pane dolce alla cannella e poi mi portò in una taverna malsana. Pagammo il biglietto e percorremmo un lungo corridoio fino al retro del locale, dove un tipo dall’aria sinistra sollevò una pesante tenda e ci fece entrare in una stanza drappeggiata di scuro e illuminata con ceri da chiesa. In fondo c’era un tavolo coperto con panni neri e due grandi vasi di vetro. Non ricordo il resto dell’arredamento perché il terrore mi paralizzò. Tremavo di paura, aggrappata con entrambe le mani alla gonna di mia mamma, mentre lei sembrava in estasi. Nel primo recipiente galleggiava una mano in un liquido giallastro e nel secondo c’era la testa di un uomo con le palpebre cucite, le labbra tese, la dentatura in vista e i capelli ritti.

“Joaquín Murieta era un bandito. Come tuo padre. In genere, i banditi finiscono così,” mi spiegò mia madre.

Inutile dire che quella notte fui preda di incubi terribili. Mi venne la febbre, ma mia mamma riteneva che, a meno che non si stesse perdendo sangue, non era necessario intervenire. Il giorno dopo, con lo stesso vestito e quei maledetti stivaletti, che portavo già da due anni e che mi erano diventati stretti, ritirammo la fotografia e ci incamminammo verso la zona elegante di San Francisco, dove fino ad allora non avevo mai messo piede. Strade acciottolate che si inerpicavano sulle colline, dimore signorili con giardini di rose e cespugli curati, cocchieri in livrea e cavalli tirati a lustro, e nemmeno un mendicante.

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