Difficile rendere l’idea della matericità del lavoro di Carlo Gallo, che è tutt’uno con la sua persona, gli sguardi e la cultura della sua terra. Il 9 Agosto è stato in scena per Cortile Teatro Festival col suo “Bollari – Memorie dallo Jonio”, sul promontorio della Tenuta Rasocolmo. Ci conosciamo dagli anni delle rispettive accademie e sono andato a farmi raccontare un po’ di dietro le quinte.
LA STORIA (No spoiler)
La narrazione inizia col ritrovamento di un cammello sulla spiaggia calabra, probabilmente portato a riva da una barca di pescatori. Questa prima fra una lunga serie, di immagini suggestive e mutevoli, permette all’autore/attore di introdurci una variegata fauna umana, di cui seguiremo le vicende condensate per circa un’ora: Un sottobosco di pratiche, danzanti fra illegalità e tradizione, portate da dentro a fuori, con valore etnografico, unito al piacere dello storytelling dal vivo.
Nel periodo fascista di cui il nonno, omonimo di Carlo, e gli altri pescatori gli hanno riempito la testa di racconti, fra le loro consuetudini per sopravvivere, vi era quella di partire in barca alla ricerca di banchi di pesce, auspicabilmente tonni, e una volta avvistatili, al grido di “Bollari!” cercare di pescarli lanciando in acqua più o meno artigianali bombe. Proprio una di queste era costata la mano sinistra a Mastro Raffaele, uno dei protagonisti centrali della storia insieme a suo figlio e a “Suricello”, figura ispirata davvero al nonno.
COME NASCE?
“Vengo dall’Accademia Nico Pepe. Ogni tanto facevamo delle soiree. Potevamo presentare lavori su testi noti o qualcosa scritta di proprio pugno. Io per tutto il corso dei tre anni non l’avevo mai fatto, anche perché mi rompevano le palle per la dizione. In accademia mi riprendevano se la sbagliavo, in Calabria gli amici mi guardavano storto se la usavo, attribuendomi appellativi poco gradevoli e non solitamente collegati all’uso del linguaggio. Una tortura cinese. E era una confusione totale. Ma l’ultimo anòlno, c’era questo regista napoletano, simpaticissimo, bravissimo, con una sensibilità veramente fuori dal comune, che sapeva captarti in pochi secondi e non si tratteneva dal dirti le cose come le sentiva.
“No, non mi convinci tu – mi fa – tu ti nascondi.” Voleva che usassi la mia lingua, il dialetto.
C’era questa idea di storia che mi veniva dai racconti diretti di mio nonno e altri pescatori e poteva collimare col lavoro che facevamo insieme a questo regista. Ce l’avevo in testa da una vita, stavo lì in silenzio per ore ad ascoltare sempre gli stessi resoconti. E così mi sono lanciato in una prima sperimentazione, parallelamente ne ho parlato a Peppino Mazzotta (NDL: attore noto soprattutto per il ruolo di Giuseppe Fazio in Montalbano) che mi ha chiesto di mandargli qualcosa, e allora la grande ammirazione nei suoi confronti, e anche un po’ di paura, hanno sconfitto la pigrizia e mi hanno persuaso a sviluppare il progetto, che esiste ora da più di 10 anni.”
MEMORIA, DRAMMATURGIA, AZIONE
Sul lavoro di scrittura
“Mi sono dato da fare proprio a capire come dar forma a una cosmogonia di fatti e fatterelli, cercando di non fargli perdere quella veracità, quella ritmica, quel senso di compiutezza che hanno gli anziani quando raccontano una cosa, il modo in cui tengono l’attenzione; sanno quando farti ridere, sanno fare la pausa, hanno un dialetto molto più giusto, più morbido, fanno anche una selezione naturale di alcuni termini, mantenendo spontaneamente alcuni termini ed escludendone altri che anche in drammaturgia suonerebbero male. Mio nonno era esattamente così. E poi c’è l’uso della lingua, da una parte sembra ti appartenga e faciliti le cose ma come diceva Eduardo – questa cosa mi colpì quando l’ho sentita – La lingua anche se è la nostra non ci appartiene ancora scenicamente, per usarla in scena bisogna comunque lavorarci su.”
DA 10 ANNI IN SCENA
“Dopo dieci che porto in scena questo lavoro è cambiato che sono molto meno disciplinato, più libero, cerco di stare in contatto con il pubblico, di concedermi qualche cosa non programmata, anche sbagliare. C’è un’esperienza più diretta a livello emotivo. Secondo me è la cosa più bella del nostro lavoro, quando c’è questa libertà. Il segreto della libertà può stare anche nella ripetizione. Io sono un pitagorico, i pitagorici ripetevano sempre le stesse cose. Quando andavano a dormire, la sera, ripetevano quello che avevano fatto la mattina; Tutte cose ora divenute sono super commerciali. I corsi per memorizzare e ripetere spopolano.”
AUTRI PAROLI
“A livello di scrittura avrei altre cose in pentola ma dal post covid ho un po’ rallentato, anche perché sono diventato papà e sono successe molte cose. Prima ero più disciplinato, mi appuntavo tutto, e facevo meno uso dei social ahimè. Ora sto cercando di disintossicarmi e riprendere a scrivere… proprio in questi giorni. Esiste già un altro spettacolo, più cristallino se vogliamo, sono due fiabe però, sempre tratte da racconti orali, si chiama ‘N Cielu e ‘N Terra e dentro c’è anche un racconto di come Dio ha creato la Calabria, che, no, non è per fare una battuta o una barzelletta.”
AMEN
Ciò che rimane dello spettacolo di Carlo oltre l’ora di piacevolissimo e poetico intrattenimento, è il profondo legame che ha con quanto porta, che fa di questa azione performativa qualcosa che travalica il confine della scena, fra memoria e veicolo, di cui anche lui si fa, in un certo senso, passeggero. “Ormai per me recitare questo spettacolo è come una preghiera.” Dice.
È un po’ come assistere a un’opera etnografica vivente, in cui l’attore si fa medium di un paesaggio che gli ha dato radici e profondità, una cosa che ammetto a me manca un po’ e per questo mi desta fascinazione. Sono rimasto a farmi ammaliare da quelle sequenze di suoni e di gesti più ancora che dai fatti stessi della storia, che si concludono in crescendo.
Si sente il battito di una scrittura viva e pulsante, che nessuna AI potrebbe mai sostituire, perché ti vibra dalle vertebre alla penna e diventa quasi impulso, necessità. Della parola scritta questo è il vero fascino, che emerge in tutta la sua forza quando si fa rito d’incontro: la possibilità di riassumere e tradurre per mezzo della pagina – come una costellazione di simboli in codice ¬– gli spiriti che ci portiamo dentro; per rendere un po’ posseduti anche quelli che l’incontrano, o solo risvegliare loro dentro il proprio mare personale, la propria foresta.