Il Premio Bagutta 2025, il più antico premio letterario italiano, come di consueto, l’ultima domenica del mese di gennaio è stato proclamato il vincitore della 99esima edizione. La giuria, presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti, ha eletto vincitore Vittorio Lingiardi con il libro “Corpo, umano“, edito da Einaudi.
Un libro che intreccia con rara maestria il rigore del saggio e l’intimità del racconto autobiografico, firmato da uno psichiatra che conosce a fondo non solo la mente, ma anche la fragilità della carne. È un’esplorazione affascinata e affascinante del corpo umano, analizzato passo dopo passo, nervo dopo nervo, come se ogni fibra celasse una storia, ogni organo un ricordo. Ad arricchire il volume, un vasto corredo di citazioni, immagini e suggestioni che non si limitano a illustrare, ma amplificano il senso profondo del testo: comprendere il corpo è, in fondo, un modo per ritrovare se stessi.
Il premio per l’opera prima è stato assegnato a Marta Lamalfa con “L’isola dove volano le femmine” (Neri Pozza).
Ambientato nella Sicilia dei primi del Novecento, il libro è stato apprezzato per “una lingua potente e profondamente personale, scolpita con una sicurezza stilistica rara in un’autrice al suo esordio
La giuria, presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti, segretario Andrea Kerbaker composta da Marco Amerighi, Rosellina Archinto, Eva Cantarella, Elio Franzini, Umberto Galimberti, Davide Mosca, Elena Pontiggia, Enzo Restagno, Mario Santagostini, Roberta Scorranese, Alessandra Tedesco e Valeria Vantaggi, ha riconosciuto l’originalità di un’opera che si muove con disinvoltura tra saggio, memoir e narrazione visiva, capace di raccontare organi, patologie e la memoria inscritta nel corpo con uno “spirito da romanzo”, vivo, coinvolgente, quasi narrativo nella sua precisione clinica.
Il premio verrà consegnato il 9 febbraio durante la tradizionale cena a inviti, nella sede di via De Grassi messa a disposizione da Francesco Micheli, storico sostenitore del Bagutta.
I vincitori del Premio Bagutta 2025
Vittorio Lingiardi con il libro “Corpo, umano“, edito da Einaudi.
Come una visita medica, un film di fantascienza, un pomeriggio d’amore, questo è un viaggio nel corpo. Di tutti i libri sul tema, l’unico segnato da una virgola: “Corpo, umano”. Virgola che impone una pausa, respiratoria e mentale, dentro la quale cercare il proprio, di corpo, oggi al centro di mille attenzioni, ma di nessuna cura: la medicina lo scompone in oggetti parziali, la vita online lo sottrae alle relazioni toccanti, la politica lo strumentalizza.
Vittorio Lingiardi lo riporta con sensibilità al centro della scena e ci racconta gli organi che lo compongono – uno per uno, dal fegato al cervello, dagli occhi al cuore – con la voce della scienza e del mito, dell’arte e della letteratura. E riesce nell’impresa di restituircelo intero: «elettrico», direbbe Whitman, «vivente», direbbe Winnicott. Tutt’uno con la psiche. Autobiografico e psicoanalitico, medico e immaginifico, questo libro concepito in tre stanze – “il corpo ricordato”, “il corpo dettagliato”, “il corpo ritrovato” – ci accompagna in un viaggio avventuroso all’interno del corpo, celebrando la sua fisicità senza separarla dalla sua poetica. Il sangue e le cellule, i simboli e i ricordi.
Con le spiegazioni della scienza, le immagini dell’arte, le parole della letteratura, Vittorio Lingiardi racconta la vita del corpo che è «il nostro io, ma anche il primo tu». Nella sua pratica clinica, nell’esercizio della cura, ne ha ascoltati molti, di corpi. La ricerca del contatto e dell’attaccamento, il tumulto dell’adolescenza, l’esperienza della malattia, il risveglio del desiderio, le metamorfosi del genere. Ma anche i sintomi e i silenzi: il taglio sulle braccia che attenua il dolore mentale; le ossa appuntite dell’anoressia; i muscoli gonfi della vigoressia; lo sguardo dismorfico che vede un difetto dove non c’è; il panico che simula l’infarto.
Il nostro corpo ci segue e ci accompagna, sa consolarci, può essere nemico. È un laboratorio alchemico capace di apparizioni infinite: anatomico, fisiopatologico, sociale, politico, religioso, estetico, nudo, vestito, danzante, energico, stanco.
“Corpo, umano” è un’evocazione, una ricostruzione idiosincratica e incantata. Dove pagina dopo pagina, organo dopo organo, affiora la consapevolezza che, anche quando rischia di svanire, l’unico modo per ritrovare il corpo è raccontarlo.
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Marta Lamalfa con “L’isola dove volano le femmine” (Neri Pozza)
Alicudi, 1903. Caterina guarda il corpo gelido e duro come una crosta di pane di Maria, la sua gemella, e pensa che ora la vita cambierà per sempre. Era Maria a scegliere per lei i pensieri giusti da pensare, e adesso chi lo farà al suo posto?
Se l’è portata via un male cattivo e tutti in famiglia – dalla bisnonna che non ci vede più bene ma capisce tutto, a Palmira, la madre che ha per la quarta volta un bambino in pancia ma ha perso la testa per il dolore – pensano sia colpa di Ferdinando, che sconta una pena al Castello di Lipari, e vuole fare la rivoluzione.
Ora che Maria non c’è più, anche se la stanza di Caterina si è allargata, la vita è diventata molto più stretta: lavora nei campi di don Nino fino al tramonto, consegna le acciughe sotto sale e aiuta la mamma con le fatiche di casa, aspettando il suo giorno preferito, quello in cui tutti si riuniscono per impastare il pane.
Da qualche tempo, però, alle spighe di segale dell’isola sono spuntati dei piccoli corni neri come il carbone, tizzonare le chiamano. All’inizio non s’erano fidati a mangiare quel pane aspro, ma ora non c’è altro, così anche Caterina butta giù quei morsi duri che hanno l’odore della morte. Forse però in quei bocconi grami c’è la chiave per scappare da un presente sempre più solitario e amaro, e raggiungere le majare, le streghe che vivono sull’isola e si librano in cielo, libere nell’ala scura della notte.
Caterina non lo sa, ma non è l’unica a vedere cose che poi sfumano nella nebbia. Per lei, come per tutti i settecentotredici arcudari, verrà il momento di scegliere tra la realtà e il sogno. Con una lingua originale e antica, Marta Lamalfa riporta alla luce un fatto storico dimenticato e ci trasporta in una terra battuta dal vento, minuscola eppure universale.
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Storia del Premio Bagutta
All’interno della trattoria toscana gestita da Alberto Pepori in via Bagutta a Milano, nacque l’idea di istituire un premio letterario.
La trattoria, che attirò l’attenzione dello scrittore Riccardo Bacchelli e del suo elzevirista e critico cinematografico Adolfo Franci, divenne presto il luogo prediletto di numerosi amici. Questi amici, abituati a riunirsi per cenare insieme e discutere di libri, concepirono l’idea di creare un premio letterario nella serata dell’11 novembre 1926, la notte di San Martino. Gli undici presenti decisero di autoeleggersi come giuria.
Il forte desiderio di mantenere l’indipendenza li spinse a sospendere il premio tra il 1937 e il 1946, temendo influenze da parte del regime, dal momento che alcuni dei giurati erano sostenitori di tale regime.
L’atto di fondazione del premio, redatto su un foglio di carta da Adolfo Franci (noto come la “carta gialla”), fu immediatamente scritto e affisso su una parete del locale. L’annuncio ufficiale venne diffuso attraverso La Fiera Letteraria.
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