A cantare fu il cane, un avvincente giallo di Andrea Vitali, pubblicato a febbraio 2017. Una nottata turbolenta, ladri, fughe, amori, e un bastardino ringhioso e mordace. Un’indagine intricata, ambientata negli anni ’30, in un paese sul Lago di Como, tanto amato dall’autore.
«Un diavolo, no.
Un cane piuttosto.
Il bastardino di casa Panicarli della cui esistenza nessuno aveva avvisato il carabiniere Virgola.
Sbucato da chissà dove, e abbaiando come se avesse ereditato i toni di tutte le razze che s’erano incrociate prima di arrivare a lui, in un battibaleno gli aveva addentato la gamba sinistra del pantalone, strappandola con una ferocia ringhiante e poi sputandola per riprendere ad abbaiare come un ossesso, e aggirandolo per attaccarsi alla gamba destra.»
La quiete della notte tra il 16 e il 17 luglio 1937 viene turbata a Bellano da un grido di donna. Trattasi di Emerita Diachini in Panicarli, che urla «Al ladro! Al ladro!» perché ha visto un’ombra sospetta muoversi tra i muri di via Manzoni. E in effetti un balordo viene poi rocambolescamente acciuffato dalla guardia notturna Romeo Giudici.
È Serafino Caiazzi, noto alle cronache del paese per altri piccoli reati finiti in niente soprattutto per le sue incapacità criminali. Chiaro che il ladro è lui, chi altri? Ma al maresciallo Maccadò servono prove, mica bastano le voci di contrada e la fama scalcinata del presunto reo. Ergo, scattano le indagini. Prima cosa, interrogare l’Emerita. Già, una parola, perché la donna spesso non risponde al suono del campanello di casa, mentre invece è molto attivo il suo cane, un bastardino ringhioso e aggressivo che si attacca ai polpacci di qualunque estraneo. E il Maccadò, dei cani, ha una fifa barbina.
I misteri e le tresche di paese, gli affanni dei carabinieri e le voci che si diffondono incontrollate e senza posa, come le onde del lago, inebriate e golose di ogni curiosità, come quella della principessa eritrea Omosupe, illusionista ed escapologa, principale attrazione del circo Astra per le sue performance, ma soprattutto per il suo ombelico scandalosamente messo in mostra. E per la quale, così si dice, ha perso la testa un giovanotto scomparso da ca sa…
“Era lo scrocchio di un paio di scarpe di cuoio che, per quanta fosse la delicatezza investita nel camminare da parte di colui che le indossava, non potevano fare a meno di gemere.”
Recensioni positive per questa opera di Vitali, anche se i personaggi sono tanti la scrittura risulta piacevole e scorrevole, purtroppo troppo scorrevole, quando si arriva alla fine se ne vorrebbe leggere subito un altro. Lettura consigliatissima!
Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1937, dal caseggiato di via Manzoni sito al civico 37, altezza incrocio via Porta, si levò alto un grido.
«Al ladro, al ladro!»
Era quasi l’una.
La voce, femminile, era quella di Emerita Diachini in Panicarli, di anni trentacinque.
Nell’opprimente aria della notte, greve di umidità, l’invocazione dell’Emerita sembrò sgonfiarsi quasi subito, nel breve snodo della contrada. Ma era ben lì, e non altrove, che doveva arrivare poiché da lì, e non da altrove, poteva giungere qualcuno che accorresse al grido.
A coglierlo tra i primi fu l’orecchio di Serafino Caiazzi che in quel momento stava cercando di forzare la portafinestra dell’appartamento di Nemore Cominelli, sito al civico 87 di via Manzoni, un primo piano di facile accesso per un giovane agile e magro di fame come il Caiazzi.
L’appartamento era di proprietà della Cominelli al pari dell’intero caseggiato che sorgeva, dando le spalle alla via Manzoni, sul lato di destra della cosiddetta corte degli Adamoli, uno slargo al cui centro era da poco stata piantata una palma fatta giungere dalle terre d’Africa di recente conquistate.
Da un paio di giorni la Nemore, tanto benestante quanto anziana, era ricoverata presso l’ospedale Umberto I per via di una complicata polmonite, da cui l’idea del Caiazzi, una volta appresa la notizia e non nuovo a certe imprese, di fare una visitina alle sue stanze.
Nel momento in cui percepì il grido, tra un abbaio di cani e un miagolio di gatti, il Caiazzi aveva già raggiunto il terrazzino che dalla cucina di casa Cominelli dava sulla corte e si apprestava a violare la portafinestra per poi entrare e darsi da fare.
Si bloccò all’istante.
Il tempo di scrutare il buio che lo circondava cercando di cogliere qualche segno sospetto e risentì il grido.
Non veniva da molto lontano, e metteva qualche brivido: una simile sirena d’allarme non sarebbe stata inascoltata a lungo.
Capì allora che i suoi sogni di gloria finivano lì. Qualche bastardo doveva aver avuto la sua stessa idea agendo proprio in prossimità di casa Cominelli.
Non gli restava altro da fare.
Basta, via!, prima di finire in un altro guaio.
Rimise in tasca i ferri, saltò di sotto, due metri, e prese la via della fuga.
Uscito in via Manzoni, girò a destra, correndo e di tanto in tanto guardandosi alle spalle.
Giunto all’angolo con via Boldoni girò ancora a destra con l’idea di imboccare via Plinio e salire verso il quartiere Novareno, da cui si dipartivano quattro o cinque viuzze che avrebbero disorientato eventuali inseguitori. Per conto suo aveva già deciso di allungare il passo e raggiungere il cimitero con la certezza che, nascosto tra le tombe, nessuno l’avrebbe cercato e men che meno, nel caso, trovato.
A quel punto, l’eco delle grida dell’Emerita era già morto nell’aria.