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SEI QUI: Home » Libro Caffè » Autori Libri » Levy Marc » Marc Levy – Se potessi tornare indietro
Levy Marc

Marc Levy – Se potessi tornare indietro

16 Luglio 2013Updated:3 Aprile 2021Nessun commento6 Mins Read
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se-potessi-tornare-indietro
Marc Levy – Se potessi tornare indietro

Se potessi tornare indietro è un romanzo di Marc Levy, pubblicato in Italia nel giugno 2013, traduzione di Maria Vidale. Un romanzo rosa che tiene incollati alle pagine come il migliore dei thriller.

“Da quand’è che credi nel destino?”
“Da quando mi sei ricomparsa davanti.”

9 luglio 2012. Andrew Stilman, celebre giornalista del New York Times e sposo novello, si alza di buon’ora, infila le scarpe da jogging e inizia la sua routine quotidiana con l’abituale corsa lungo l’Hudson River. Ma da quel momento la sua giornata smette di essere una giornata normale: Andrew viene aggredito improvvisamente, colpito alle spalle e abbandonato a terra in una pozza di sangue.
Quando riprende conoscenza, si convince di essere scampato miracolosamente alla morte. Ma qualcosa non torna, perché il calendario è fermo sulla data del 9 maggio: prima del suo matrimonio, prima dell’aggressione che lo ha costretto in un letto di ospedale.
Da quel momento Andrew ha sessanta giorni per scoprire e fermare il suo assassino. Sessanta giorni per cambiare il corso del suo destino e riscrivere il futuro.

Una corsa contro il tempo, un mistero apparentemente irrisolvibile, con la maestria di sempre, Marc Levy mescola suspense e sentimenti per trascinare il lettore in un viaggio avvincente alla scoperta del prezzo della verità.

Farsi invisibile.
Confondersi tra la folla, agire in modo che nessuno si renda conto di nulla, e che nessuno possa ricordare niente.
Una tuta da jogging, l’ideale per non essere notati. L’Hudson River Park, alle sette di mattina, è pieno di gente che corre. In una città che mette i nervi a dura prova, dove ogni minuto ha un prezzo, corrono tutti. Per mantenersi in forma, per smaltire gli eccessi della sera prima, per prevenire lo stress della giornata che li aspetta.
Una panchina. Posarci il piede sopra, allacciarsi la scarpa, aspettare che il bersaglio si avvicini. Il cappuccio calato sulla fronte riduce la visuale, ma permette di nascondere il viso. Approfittare della pausa per riprendere fiato, la mano deve essere ferma. Il sudore non ha importanza, qui sudano tutti.
Quando arriva, lasciarlo passare, aspettare qualche secondo e poi ricominciare a correre, piano. Tenersi alla giusta distanza, finché non è il momento buono.
Stesso copione, ripetuto per sette giorni di seguito. Ogni mattina, alla stessa ora. Ogni volta, la tentazione di agire si fa più forte.
Ma il successo dipende da una buona preparazione. Non sono ammessi errori.
Eccolo che viene giù per Charles Street, fedele alla sua routine. Aspetta che il semaforo diventi rosso per attraversare le prime quattro corsie della West Side Highway. Gli automobilisti si muovono tutti verso nord, diretti al lavoro.
Ha raggiunto lo spartitraffico. L’omino luminoso del semaforo comincia a lampeggiare. Verso TriBeCa e il Financial District le auto procedono una appiccicata all’altra, ma lui attraversa lo stesso. Come sempre, risponde ai clacson alzando il pugno e il dito medio. Gira a sinistra, sul percorso pedonale che costeggia l’Hudson.
Come sempre, si spara i suoi venti isolati in compagnia degli altri forzati del jogging, maledicendo quelli che lo superano. Bella forza, avranno come minimo dieci anni di meno. Quando lui ne aveva diciotto, era tra i pochi che venivano a passeggiare in questa zona della città, allora infrequentabile. I dock montati su palafitte puzzavano di pesce e ruggine. Nell’aria odore di sangue. Ne sono cambiate di cose, in vent’anni. La città è ringiovanita, si è fatta più bella, l’esatto contrario di quel che è successo a lui.
Sull’altra riva del fiume il giorno che nasce spegne le luci di Hoboken, e subito dopo quelle di Jersey City.
Non perderlo d’occhio. All’altezza di Greenwich Street, lui lascia il lungofiume. Bisognerà agire prima. Così non entrerà più nello Starbucks dove di solito ordina un mocaccino.
Quando sarà arrivato al molo numero 40, l’ombra che lo segue l’avrà raggiunto.
Ancora un isolato. Accelerare il passo, mescolarsi alla calca che in quel punto si forma sempre perché la corsia si restringe e i più lenti bloccano i più veloci. Il lungo ago d’acciaio scivola sotto la manica. La mano ferma lo afferra.
Colpire sopra l’osso sacro, giusto sotto l’ultima vertebra. Un colpo secco. Affondare l’ago fino a perforare il rene, risalire all’aorta addominale, e subito estrarlo. L’ago avrà prodotto lacerazioni irrimediabili, prima che qualcuno capisca cos’è successo, prima che arrivino i soccorsi e lo trasportino in ospedale. Anche a sirene spiegate, non è facile raggiungere l’ospedale. Questa è l’ora peggiore.
Fosse successo due anni prima, qualche possibilità di cavarsela forse l’avrebbe avuta. Ma da quando hanno chiuso il St. Vincent per favorire gli speculatori immobiliari, il pronto soccorso più vicino si trova a est, dall’altra parte del River Park. All’ospedale ci arriverà dissanguato.
Ma non soffrirà molto. Avrà un gran freddo, sempre più freddo. Comincerà a tremare, a poco a poco perderà la sensibilità a braccia e gambe, batterà i denti tanto da non poter parlare, e per dire cosa, poi? Che ha sentito una fitta fortissima alla schiena, come un morso? Sai che notizia per la polizia!
I delitti perfetti esistono. Anche i piedipiatti più bravi, arrivati a fine carriera, vi diranno che si portano dietro – che peso enorme per la coscienza – il loro bel numero di casi irrisolti.
Ecco, ora si trova all’altezza giusta. Il gesto è stato simulato decine di volte, ma un conto è piantare un ago in un sacco di sabbia, un altro è conficcarlo nella carne di un uomo. L’importante è non prendere l’osso. Beccare una vertebra lombare vorrebbe dire fallire. L’ago deve affondare nella carne e rientrare immediatamente nella manica.
Dopo, continuare a correre mantenendo lo stesso ritmo, resistere alla tentazione di girarsi, mescolarsi alla gente che corre, continuare a essere nessuno.
Tante ore di preparazione per pochi secondi di azione.
Servirà più tempo a lui per morire, probabilmente un quarto d’ora. Ma quella mattina, alle sette e trenta, morirà.
Ecco, ora si trova all’altezza giusta. Il gesto è stato simulato decine di volte, ma un conto è piantare un ago in un sacco di sabbia, un altro è conficcarlo nella carne di un uomo. L’importante è non prendere l’osso. Beccare una vertebra lombare vorrebbe dire fallire. L’ago deve affondare nella carne e rientrare immediatamente nella manica.
Dopo, continuare a correre mantenendo lo stesso ritmo, resistere alla tentazione di girarsi, mescolarsi alla gente che corre, continuare a essere nessuno.

Marc Levy Narrativa
Ketty
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Faccio i conti con la mia insaziabile voglia di conoscenza, mi piace condividere con gli altri le cose che imparo e confrontarmi, questo blog tenta di raccogliere i pezzi confusi di me.

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