La promessa di un’estate è un romanzo scritto da Marc Levy, pubblicato in Italia nel 2020. Una favola moderna dove un pianista e il fantasma di suo padre si imbarcano in una rocambolesca avventura oltreoceano, intenzionati a ricucire gli strappi del tempo e cercare un lieto fine. Una commedia romantica e surreale che ricorda il suo primo successo “Se solo fosse vero“.
“Se sapessi quello che ho vissuto questa sera, saresti il primo a riderne. Mi hai messo una gran paura, ma è stato bello rivederti, papà, anche in un sogno strano.”
Il Concerto n. 2 di Rachmaninov mette a dura prova anche i grandi maestri del pianoforte. Lo sa bene Thomas, giovane virtuoso tra i migliori talenti di Francia, che da mesi si prepara per andare in scena alla prestigiosa Salle Pleyel di Parigi. Ma non è per la complessità dello spartito, se la sera del debutto sbaglia le note: è perché lì, tra il pubblico, accomodato sulle ginocchia di una donna ignara, c’è il fantasma di suo padre Raymond. Sovvertendo le leggi del possibile, l’uomo è tornato dall’aldilà per chiedere al figlio di aiutarlo a esaudire un desiderio: ricongiungersi a Camille, con cui in vita ha condiviso un duraturo sentimento platonico, nato molti anni prima su una spiaggia d’estate. C’è solo un modo affinché il sogno si realizzi, un rito inaudito che dovrebbe riunire i due amanti in maniera definitiva.
“Avevi otto anni, ti preparavo la colazione mentre finivi di sistemare la cartella. Sei entrato in cucina, ho sentito i tuoi passi alle mie spalle e mi sono voltato. Mi hai fissato con quei tuoi occhi grandi e mi hai fatto una domanda: «Senti, papà, com’è essere padre?».
Sono rimasto zitto, poi ti ho chiesto: «Vuoi delle uova?».
Non riuscivo proprio a trovare le parole semplici che ti aspettavi. La mia risposta era altrove, nel sorriso che ti ho rivolto e nel mio sguardo, nel bisogno di sapere che cosa ti sarebbe piaciuto mangiare, non solo a colazione, ma per tutto il giorno e per quelli a venire. Era forse questo essere padre, ma non sapevo come dirlo. Ci separavano un tavolo da cucina e quarant’anni. Guardandoti, ho rimpianto di non aver rinunciato prima all’egoismo della giovinezza, di non aver incontrato prima tua madre, di non averti avuto prima… Saremmo stati più vicini se io fossi stato più giovane?
Probabilmente non avrei saputo lo stesso rispondere alla tua domanda, ma non ho mai smesso di pormela. Sono dovuto sparire perché tu cominciassi a cercare da solo, a frugare tra i tesori dei nostri momenti insieme, dei nostri discorsi, a raccogliere quei ricordi lontani come riordinavi i quaderni nella cartella, a volermi conoscere. È questo strano gioco della vita a farmi rinascere oggi, per avvicinarci di nuovo? Ora che sei molto più di un figlio, perché sei diventato un uomo.”
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La Salle Pleyel era deserta. Se fuori un sole primaverile scaldava la città dopo un timido inverno, lì un solo fascio di luce squarciava l’oscurità per illuminare il palco, immergendo il pianoforte in una penombra nella quale fluttuavano minuscoli granelli di polvere.
Il Concerto n. 2 di Rachmaninov era un brano da esperti. Ma il virtuosismo non bastava. Ogni volta che Thomas lo interpretava, doveva rimettere in discussione tutto ciò che dava per acquisito. Suonarlo era per lui cercare l’invisibile, esaltare le emozioni provate, attingere alla memoria per raccontare la strada che portava dall’infanzia all’indomani, quando in quella sala un migliaio di spettatori lo avrebbe ascoltato, e qualche attento orecchio critico l’avrebbe valutato. Appena ebbe suonato con forza l’ultimo accordo, il fascio di luce lampeggiò tre volte. Il tecnico delle luci era impaziente.
«Va bene, ho quasi finito, un’ultima volta e me ne vado» gridò Thomas.
«La sua esecuzione è perfetta, mi creda» replicò una voce dalla postazione di regia.
Poteva sembrare ridicolo il fatto che fosse un tecnico delle luci a giudicarlo, ma Thomas si fidava dell’orecchio di Marcel. In fondo quell’uomo aveva assistito a più concerti di lui, aveva illuminato orchestre di tutto il mondo, allora perché dargli meno credito che al direttore, che non si era nemmeno degnato di guidarlo durante l’ultima prova?
«Devo andare, signor Thomas, e non posso lasciarla qui dentro, anche se sono certo che non le dispiacerebbe. Vada a distrarsi. Ha sicuramente di meglio da fare che passare la notte in questa sala.»
Marcel, bonario quanto panciuto, salì sul palco.
«Glielo ripeto: è perfetto. Sono sicuro che Rachmaninov va in visibilio, guardandola dal cielo.»
«Preferirei che mi ascoltasse» replicò Thomas, abbassando il coperchio sulla tastiera. «E poi chi le dice che si è meritato di andare in cielo, quel mostro che ha composto musiche così difficili?»
«Appunto» insistette il tecnico delle luci accompagnando Thomas dietro le quinte. «Forse lui la ascolta, ma io la vedo suonare dalla mia cabina e, mi creda, si sente che la musica le va fin dentro gli occhi, anche quando li chiude. Se suona così domani sarà un trionfo.»
«Troppo gentile, Marcel.»
«Gentile un corno! Non dica assurdità. E adesso se ne vada» esclamò il tecnico sospingendo Thomas verso l’uscita degli artisti. «Mia moglie mi aspetta e se tardo ancora un po’, non sarà certo tanto gentile quando mi accoglierà in casa. Vada dalla sua fidanzata o faccia quel che vuole, ma la smetta di farsi tormentare dalla paura, non serve. Ci vediamo domani, verrò un’ora prima, se vuole provare ancora.»
La solitudine del pianista si fa sentire appena varcata l’uscita degli artisti. Thomas invidiava flautisti, violinisti e contrabbassisti che se ne andavano in compagnia del loro strumento.