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SEI QUI: Home » Libro Caffè » Eventi e Curiosità sui Libri » Premi Letterari » Premio Strega Poesia 2024: la cinquina finalista
Premi Letterari

Premio Strega Poesia 2024: la cinquina finalista

15 Luglio 2024Updated:9 Ottobre 2024Nessun commento13 Mins Read
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L’11 luglio, al Maxxi L’Aquila – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, è stata annunciata la cinquina finalista del Premio Strega Poesia 2024, alla sua seconda edizione. La serata è stata condotta da Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, con ospite anche la vincitrice del Premio Strega 2024,  Donatella di Pietrantonio e il presidente della Fondazione Maxxi, Alessandro Giuli.

Il Comitato scientifico, composto da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa, Mario Desiati, Elisa Donzelli, Roberto Galaverni, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Melania G. Mazzucco, Stefano Petrocchi, Laura Pugno, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta,  ha scelto i finalisti tra i 144 candidati.

Una giuria composta da personalità della cultura determinerà l’opera vincitrice, il premio verrà assegnato il prossimo 9 ottobre, a Roma, presso il Tempio di Venere e Roma all’interno del Parco archeologico del Colosseo.

Discomparse di Gian Maria Annovi (Aragno).
Vivi al mondo di Daniela Attanasio (Vallecchi Firenze).
Natura di Roberto Cescon (Stampa 2009).
Paradiso di Stefano Dal Bianco (Garzanti).
Eredità ed Estinzione di Giovanna Frene (Donzelli).

La cinquina finalista del Premio Strega poesia 2024

Discomparse di Gian Maria Annovi (Aragno).

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«Un’altra grammatica in cui non esiste l’articolo, con segni diversi in cui entrano vento, gelo e suoni gutturali, suoni sciti, ritmi lontani»: così, alla prima uscita, Antonella Anedda presentava quel piccolo classico contemporaneo che è La scolta. Da questa stazione –abitata da una «Signora» ridotta a «un sacco di ossa e respiro», e da una «non italiana» che «la bada» – comincia, dieci anni dopo Italics, il nuovo percorso di Gian Maria Annovi.

Nella loro varietà sorprendente, le voci che abitano Discomparse danno parola agli «svociati, gli sfigurati del margine, che i discorsi dominanti negano, cancellano, dimenticano». Così se nella Scolta si confrontano, in un teatro della crudeltà dove la tragedia classica incontra Bergman, due inverse inibizioni della lingua (la vecchia «che traduceva il greco» ma della quale ora leggiamo solo i pensieri, e la «scolta» venuta dall’Est con «una lingua che pare / calcata da un grosso bove»), in Visita alla città di Sodoma un allegorico «deserto» è punteggiato da lapidi d’invenzione, in ricordo di coloro che persero la vita per la propria sessualità (come «PIER PAOLO», che «LASCIA LA MADRE/EIL MONDO STUPENDO E/MALEDETTO»).

La stessa geografia, in Antiscoperta dei monti, consente la «discoperta» di «cose che non son cose», per dirla con Leopardi, «ma sono comunque». Quelle «discomparse» sono presenze che la preterizione consegna al desiderio o al rimpianto: come nelle parole-singhiozzo rivolte da Lear, in Cor, al corpo straziato di sua figlia. O come le figure dei neri riscattate dagli Estratti, invertendo il «naufragio di voci» di una tradizione che li emargina, per segnare a dito l’altra scomparsa, in mare, che sfregia il nostro tempo. La parola si «squaglia» e si «diplasma» – ma solo per «innascere».

Una lingua che prenda atto della propria costitutiva partizione è una lingua non (ancora) nata, che non di meno parla. Come quella «che s’innova e che / scalcia», dalla «Signora» indovinata in quella barbarica della «scolta»: prima o poi destinata a «scalzare dal nostro domani/questo paralizzato italiano». Se tornerà possibile un dialogo, allora, finalmente potremo dire di essere nati.

Motivazione:

Nella loro varietà sorprendente, le voci che abitano Discomparse danno parola agli «svociati, gli sfigurati del marine, che i discorsi dominanti negano, cancellano, dimenticano». Così se nel poemetto La Scolta si confrontano due inverse inibizioni della lingua, in un teatro della crudeltà dove la tragedia classica incontra Bergman, in Visita alla città di Sodoma un allegorico «deserto» è punteggiato da lapidi d’invenzione, in ricordo di coloro che persero la vita per la propria sessualità. Quelle «discomparse» sono presenze dimenticate, consegnate al desiderio o al rimpianto: come quelle dei neri riscattate dagli Estratti, invertendo una tradizione che li emargina per segnare a dito l’altra scomparsa, in mare, che sfregia il nostro tempo. Una lingua non (ancora) nata, che nondimeno parla. Come quella «che s’innova e che / scalcia», dalla «Signora» indovinata in quella barbarica della «scolta»: prima o poi destinata a «scalzare dal nostro domani / questo paralizzato italiano». Se tornerà possibile un dialogo, allora, finalmente potremo dire di essere nati.
(Il Comitato scientifico)

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Vivi al mondo di Daniela Attanasio (Vallecchi Firenze).

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Vivi al mondo – nuovo libro di Daniela Attanasio – tiene insieme con rigore e forza la vita sensoriale e quella spirituale; l’osservazione di quanto si apre ai sensi, per lampi o frazioni di realtà. In questi versi la poesia si avvicina a un’idea di spiritualità terrena, a “qualcosa che chiamiamo anima”.

L’autrice ci porta in un viaggio metafisico e reale, una scrittura immediata, talvolta prosastica ma sempre densa e di grande tenuta ritmica, permette di non perdere la memoria della visione e del senso. Il tema sotteso del libro è la scrittura poetica stessa, dal primo verso che apre alla spinta ispirativa, fino alla vastità del reale che si spinge oltre i confini terreni scomparendo alla nostra vista. Una grande poeta del ‘900, Elisabeth Bishop, ha scritto parlando della poesia che il segreto di questa volatile e vibrante scrittura è: “Spontaneità, mistero, accuratezza” e ha aggiunto “in quest’ordine”.

Daniela Attanasio si pone decisamente in accordo, in questo libro traccia una segreta connessione tra vita e invisibile. Una serie di incontri restano sospesi tra la quotidianità e l’alterità, tra i passanti e le parvenze, l’autrice dialoga con la materia stessa della poesia e ci accompagna fino alla densa sezione finale: il poemetto in prosa La casa di via del Corallo, in cui narra gli ultimi giorni di Amelia Rosselli, della quale Attanasio fu confidente e amica.

Motivazione:

Qualcosa deve nascere, fra le parole di un libro. Una nuova visione, un sentimento del mondo. Quella di Attanasio è una solitudine parlante, il resoconto di uno stare al mondo a cuore aperto, con uno slittamento temporale. Quelli di Attanasio sono ricordi, esperienze, note a margine, note verbali di un corpo vivente, tracce mnestiche, ciò che la vita lascia tra le maglie della vita – e la poetessa intercetta e trascrive, rivivendo o vivendo, se è vero che il corpo, in qualunque condizione, «sente ancora l’amore» e «il linguaggio nasce dalla sintesi».  Con una commovente e utilissima fiducia nella funzione poesia, Attanasio compone un’autobiografia universale, nella quale ciascun lettore può dare corpo e volto dei propri cari ai corpi e volti fissati nelle pagine, perché l’autrice intona un ininterrotto e quasi impersonale canto d’amore e malinconia, una sensata e fitta approvazione di cose piccole e immortali (piccioni, tagli di luce obliqua come gli occhi di un mondo dietro il mondo), fino al grande incontro con la figura di Amelia Rosselli, alla quale è dedicata la bellissima prosa quasi finale. Le austere stanze abitate da Rosselli hanno la stessa forma delle sue poesie: una lingua abitabile, dunque, dove stare al riparo dalla persecuzione del mondo. Una lingua che salva, finché salva, senza illusione e senza disincanto, con la serietà di un’infanzia che sopravvive e permette di intercettare tutti i bagliori di questo mondo, di vivi.
(Il Comitato scientifico)

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Natura di Roberto Cescon (Stampa 2009).

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Una potente densità di immagini e pensiero si impone in questo libro di Roberto Cescon, nella varia complessità di quello che introduce – nei numerosi intrecci in cui si svolge – come il «continuo disfarsi degli eventi.» Natura è un libro in cui il poeta tocca vicende e rapporti interpersonali nella loro anche problematica – a volte intima – dimensione, che indaga sul senso della poesia stessa e sull’origine del linguaggio. In questo riesce a passare con scioltezza dalla parola dei grandi autori alla sapienza dei primitivi, in un formidabile, originale excursus che ci conduce fino alle incisioni rupestri, dunque a tempi remotissimi, in una grande e suggestiva varietà di circostanze e luoghi. La pagina acquista così un fascino profondo e singolare, in cui il poeta ragiona sul crearsi delle forme nei percorsi umani, cercandone e cogliendone il passaggio dalla mente al loro realizzarsi nella concretezza di figure e parole, ben consapevole che «la vita là fuori / viene da prima delle forme», mentre, aggiunge opportunamente, «ogni vita incarna e prolunga / quelle già state, le muta e le contiene». Un itinerario dell’umano nel preistorico e storico compiersi della sua cangiante natura.

Motivazione:

Di fronte alla potenza attuale della scienza-tecnica, l’essere umano oggi rischia di pagare il prezzo di ritrovarsi inadeguato. Ama ancora, vive dell’esperienza del passato e pensa al futuro, sente la terra e la famiglia di tutti i viventi come un dono che lo riguarda, ma intanto il tempo della vita gli viene sottratto dalla velocità dell’informazione, gli affetti si dividono dai doveri, le immagini si avvicendano furibonde negli occhi. Non è cambiato abbastanza, l’uomo, negli ultimi due secoli, negli ultimi due decenni, per sopportare tanta pressione, tanta velocità, tanto spaesamento. Con una voce ferma, con un tono di tenace sincerità, Roberto Cescon parla della Natura, ricordando che la natura dell’uomo, della terra, del cosmo e dei viventi è quel grande mistero fatto di infinite forme di una stessa materia. La lingua umana, e la lingua della poesia in particolare, chiedono sempre di radunare nella parola le plurali e metamorfiche epifanie della natura che ci guidano e ci attraversano. Abbiamo ancora quel respiro, quella voce della poesia che ci lega nel passato di chi è vissuto e nel futuro di chi vivrà? C’è ancora una parola capace di dare continuità alle generazioni? Cescon teme lo scacco, ne ha il presentimento, ma non desiste, crede nella poesia, contro ogni trionfalismo o vittimismo. Ferito, non cede, chiede ascolto alla tradizione e pesa il suo tempo sulla bilancia dei versi, sempre vivi, sempre saldi per l’equilibrio che unisce le diverse forze di gravità del suono e del pensiero.
(Il Comitato scientifico)

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Paradiso di Stefano Dal Bianco (Garzanti).

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Un uomo se ne va a spasso col suo cane per le strade, i sentieri, i boschi, i campi e lungo il fiume nei pressi di un piccolo borgo nelle colline senesi. Tutti i giorni, per tante stagioni, l’uomo e il cane imparano e scoprono qualcosa, incappano in avventure nuove. Si crea così una sorta di concerto a tre voci, dove la terza, onnipresente e silenziosa, ma non del tutto, è quella del paesaggio. Una natura apparentemente non corrotta, a volte protettiva, a volte sottilmente inquietante, ma sempre in grado di trascendere, o di coprire, la penosa pena del vivere.

Il paradiso è qui, sembra dire questo libro, quasi in barba alle tristezze e alla negatività di molta poesia di oggi. Eppure non c’è alcuna rimozione del dramma individuale e collettivo contemporaneo, che invece rimane ben presente, ma come se davvero fosse stato superato e relegato sullo sfondo da una sorta di superiore, adulta, saggezza. La voce affabile e magnetica di Stefano Dal Bianco raggiunge qui una rara felicità di pronuncia lirica, e si conferma una tappa obbligata per chiunque voglia orientarsi nel ricchissimo spettro della poesia italiana.

Motivazione:

Un uomo, il suo cane Tito, intorno il paesaggio senese: potrebbe essere una buona figurazione di un paradiso minore, terrestre, privo della proverbiale luce divina che si spande in quello dantesco. Un Eden umanissimo: teatro di visioni più o meno rasserenate, più o meno rassicuranti, che – malgrado la brevità dei testi – Dal Bianco orchestra accordando il prevalente endecasillabo a versi di minore lunghezza come nelle stanze della tradizionale forma canzone. Vi domina la luce «radente del sole che cala». Ma anche in questa trascolorante natura che si offre ai sensi è possibile percepire «la maestà / del giorno che finisce» (torna in mente la poesia potente di Yeats: «These are the clouds about the fallen sun, / The majesty that shuts his burning eye»). Così, se il cane è gettato senza scampo nel mondo delle cose fisiche, «Tito ha il naso rasoterra / tutto il tempo perché tutto / profuma di qualcosa», il suo padrone è un io desiderante, continuamente rinviato a un luogo sconosciuto, collocato oltre l’esperienza, oltre il ricordo e l’immaginazione: «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra». Perché il paradiso, infine, non può essere mai qui e ora.
(Il Comitato scientifico)

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Eredità ed Estinzione di Giovanna Frene (Donzelli).

leggi la trama ...
Eredità ed Estinzione raccoglie gli ultimi dieci anni della produzione poetica di Giovanna Frene, segnando una nuova fase della sua riflessione sul rapporto tra poesia e storia, nella quale la posta in gioco è la sopravvivenza stessa della cultura, intesa come equilibrio tra memoria e oblio insito nella realtà. Proprio perché la natura dell’uomo è inserita nel tempo, qui la poesia sembra suggerire che la dimensione mnemonica si pone come storia naturale: solo vivificando quelli che si definiscono i «fatti» della storia è dunque possibile sopportare il cortocircuito prodotto dal contatto tra la velocità del mondo contemporaneo e la lentezza di un passato vastissimo.

Nel libro sfilano eventi e personaggi solo apparentemente lontani, che assumono di conseguenza una valenza allegorica: la battaglia di Adrianopoli e la morte dell’imperatore Valente si allacciano idealmente, secoli dopo, alla caduta dell’Impero Austroungarico, prefigurata nei tragici accadimenti di Mayerling; al brulichio della politica che prelude alla Prima guerra mondiale, fino alla deflagrazione di Sarajevo, si contrappone la vicenda di un soldato italiano semicolto che fa sentire la sua personalissima voce nel tessuto delle Canzoni all’Italia, cuore pulsante della tradizione letteraria italiana.

In questo tragitto ricostruito a frammenti dalla poesia il bene risulta non separabile dal male, come dimostrano i testi sul bombardamento di Dresda o sul recente processo a Milošević all’Aja. Nella struttura circolare del libro (avallata dal frequente ricorso al leit-motiv) la cavalcata di un invisibile cavaliere dell’apocalisse finisce per sovrapporsi all’emergere della vicenda soggettiva del poeta, ponendo le basi per un nuovo tipo di lirica.

Motivazione:

In questo libro Giovanna Frene si mostra nella sua compiuta maturità artistica, raccogliendo le suggestioni della sua biografia poetica e trasponendole a un livello superiore. La poesia di Eredità ed Estinzione ha una dimensione orizzontale, ampia, e una profondità di scavo verticale: non teme di confrontarsi con grandi temi. Il verso lungo circoscrive il natío paesaggio del Nord Italia, e allo stesso tempo abbraccia i luoghi della Prima Guerra Mondiale, come se non fossero trascorsi già più di cento anni, tanto è viva la memoria delle sue inesorabili conseguenze. Ma la memoria per Frene non è nulla senza la Storia, e il secolo concluso si proietta, in quest’opera, sullo sfondo di ancora più vertiginose antichità e immani distruzioni di imperi, da Roma a Bisanzio. Su queste rovine, e sulla loro paradossale promessa di futuro aleggia la poesia come sostanza in continuo cambiamento di stato, da solido a liquido a gassoso, compiendo la promessa di dare vita a un’opera che, nel mantenersi fedele a una rigorosa linea di ricerca, accetta in pieno la sfida della compiutezza e della comunicazione aperta.
(Il Comitato scientifico)

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Faccio i conti con la mia insaziabile voglia di conoscenza, mi piace condividere con gli altri le cose che imparo e confrontarmi, questo blog tenta di raccogliere i pezzi confusi di me.

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