I mangiafemmine è un romanzo scritto da Giulio Cavalli, pubblicato il 14 novembre 2023, da Fandango Libri. Si torna nel paese di DF, ora più che mai specchio oscuro di una società in cui non vorremmo mai guardarci, con questo romanzo crudo e attuale per chi ama la narrativa distopica e cerca storie che fanno riflettere. Il libro conclude la trilogia di DF, dopo “Carnaio” e “Nuovissimo testamento“.
“Era cattivo. Tullio si faceva sempre cattivo quando non sapeva come rispondere. “E tu non metterlo sotto pressione”, spiegava a Frida sua madre. “Non è cattivo, è stanco, è sempre troppo stanco, non ce ne sono tanti che prendono sul serio il lavoro come lui”, dicevano le amiche.”
Trama
“I mangiafemmine”
A un passo dalle elezioni, la placida vittoria di Valerio Corti – uomo forte dei Conservatori – è minata da una vera e propria epidemia di donne, di donne ammazzate a casa, dai mariti, dagli amanti, dagli ex fidanzati, donne fatte a pezzi da compagni devoti.
Ma il candidato premier non intende occuparsene, perché le donne sono sempre morte, perché le donne per bene, normali, le madri di famiglia, le fidanzate discrete non corrono rischi.
Oltre ogni strategia politica però pare che la strada della sua incoronazione a presidente del consiglio sia lastricata di sangue, con l’opinione pubblica che chiede conto e le poche voci delle attiviste che gridano al massacro. Ma c’è davvero un’epidemia di donne? C’è davvero un problema? E che cosa succede quando la politica, un’intera classe politica, uno Stato, il problema non sono in grado di risolverlo?
Per risolvere il problema, il governo di DF propone di legalizzare il femminicidio. E ora più che mai DF è il centro del mondo che scivola verso l’orrore.
Con I mangiafemmine Giulio Cavalli firma la sua opera più radicale e provocatoria, con lo stile riconoscibile di un narratore raffinato che non ha paura di raccontare un mondo che già c’è.
Incipit
“I mangiafemmine”
I MORTI
LEI E LUI
LUITullio cominciò a trasformarsi in topo il 3 marzo. In pieno orario di ufficio, chino a ticchettare la tastiera del suo computer, fu interrotto dall’incaricata all’ordine. Chiamava così le donne delle pulizie perché riteneva inelegante qualsiasi altra definizione. “Pulizie e donne”, aveva detto ai suoi colleghi e aveva pacatamente illustrato ai suoi collaboratori, “sono un binomio che sa di passato, di modi fuori tempo. Il rispetto si è evoluto come tutto il resto”, aveva spiegato. “Si evolve la tecnologia, si evolve il nostro approccio alla progettazione del flusso di lavoro, si evolvono i toni con cui scriviamo le lettere commerciali per non parlare di come si evolvono le comunicazioni sociali sugli account della nostra azienda. Quelle poi”, aveva aggiunto, “si evolvono nel giro di una notte, mannaggia”, e concluse confidando di risultare simpatico. No, niente. Tullio Ravasi possedeva molte qualità: l’ordine disciplinato, la capacità di analisi, un talento nella mediazione che sfociava nel parossismo, la magia di riuscire a essere d’accordo con due opinioni opposte nella stessa discussione, nell’arco di pochi minuti. Peggio, Ravasi avrebbe potuto allinearsi nella stessa giornata con i generali di una decina di eserciti in guerra tra loro senza nemmeno sgualcirsi. Anche per questo piaceva al direttore, Marco Miano, sempre troppo imbolsito dall’alcol per trovare un bravo sarto su misura. Diceva Miano che, tra i pregi di Ravasi, non si doveva commettere l’errore di dimenticare il suo impegno lento ma incessante. “Per vincere non sempre conta essere i più veloci, a volte basta partire prima, come Ravasi”, diceva Miano in quei brindisi con i bicchieri di plastica troppo molle che singhiozzano il vino se vengono schiacciati per un fremito. E sorrideva Tullio, eccome se sorrideva, per quel complimento che inghiottiva con un senso di rivincita perché era anche veloce, lui, lo sapeva Tullio di essere veloce. E se gli altri non se n’erano accorti o convinti, meglio così. Non aveva, questo lo può sottoscrivere chiunque l’abbia conosciuto, nessun cenno di simpatia. Quando si sforzava di risultare simpatico, prendeva troppa rincorsa, gli si disegnava un ghigno da tombino di ghisa e scrollava la gamba come per disfarsi di un ragno sul polpaccio. Come può risultare simpatico chi non ha la percezione del tempismo?
…
LEI
Frida quel 3 marzo lo trovò spento di una spentezza nervosa, pronta a implodere. Quando lo aspettava dopo il lavoro, era pronta a caricarsi le scarpe sfilate con fastidio appoggiato con un braccio alla porta d’ingresso, avrebbe potuto disegnare i suoi occhi bassi mentre si scambiavano un bacio da ospedale. La traiettoria, sempre quella. Un trascinamento che attraversava il corridoio, sfiorava la cucina a naso alzato per riconoscere la preda sul fuoco, i baffi che di colpo si facevano molli, il divano della sala occupato come un varo storto a cui non è venuto nessuno. “Com’è andata?”, chiedeva lei, e lui rispondeva normale, diceva sempre così, la e era una foglia incastrata in una grata. “Com’è andata?”, chiese lei quel 3 marzo e lui rispose: “Solito”. Un matrimonio come devono essere i matrimoni. La madre di Frida aveva girato il mondo, moglie a cui per cent’anni avevano chiesto dove fosse suo marito all’inizio di ogni conversazione. Suo padre, una vita da piccolo imprenditore diventato medio. A DF gli imprenditori piccoli non esistevano più dagli anni ottanta, quando si erano spostati tutti in seconda corsia, anche quelli che viaggiavano comunque a sessanta all’ora. “Il tuo matrimonio è esattamente come devono essere i matrimoni”, le disse sua madre quando, per la prima volta, Frida le fece presente quel soffocante senso di consunzione che le galleggiava in gola ogni sera che Tullio tornava a casa. “Devi cogliere il lato bello”, disse la madre, “pensa a me, tuo padre rientrava, se andava bene, una volta alla settimana. La famiglia era una tappa del viaggio.” Ci aveva provato Frida ad apprezzare il ripetersi stanco di quella litania. Non c’era riuscita. “Il matrimonio è sacrificio”, le dicevano. “Pensa a cosa ha dovuto subire lui, cosa ha dovuto districare lui, quanti pesi si deve togliere insieme alle scarpe per non farli entrare in casa. Sono lì che grattano la porta, le preoccupazioni da cui ti salva.”