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SEI QUI: Home » Libro Caffè » Poesie » Fernando Pessoa – La Tabaccheria
Pessoa Fernando

Fernando Pessoa – La Tabaccheria

KettyDa Ketty13 Giugno 2021Aggiornato:19 Marzo 2022Nessun commentoTempo di lettura: 9 min.
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Racconta Antonio Tabucchi che un giorno, a Parigi, passeggiando lungo la Senna si fermò a curiosare dai bouquinistes che vendevano, e vendono ancora, libri antichi e d’occasione e  trovò una vecchia edizione in francese di un libro di Fernando Pessoa, o per essere più precisi di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi del poeta portoghese, era un lungo poema “Le bureau de tabac” (La tabaccheria). Comprò il libretto e lo lesse sul treno che lo riportava a Firenze. Arrivato nella sua città decise di iscriversi all’università per imparare il portoghese diventando uno dei più importanti conoscitori in assoluto dell’opera di Fernando Pessoa. La poesia è datata 15 gennaio 1928.

Stando alla finestra della sua stanza, Pessoa scruta la strada sottostante, un’angusta via di Lisbona in cui campeggia l’insegna di una tabaccheria e fa delle riflessioni sulla sua vita. E quella tabaccheria diventa metafora dell’esistente che contrappone al sogno.
La Tabaccheria

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia camera,
della mia camera di uno dei milioni del mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, che cosa saprebbero?),
date sul mistero di una strada attraversata costantemente da gente,
su una strada inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
col Destino che guida la carretta di tutto per la strada di niente.

Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della strada diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
dal dentro della mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e trovato e scordato.
Oggi sono diviso fra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dirimpetto, come una cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Ho fallito in tutto.
Poiché non ho fatto nessun proposito, forse tutto era niente.
Dall’insegnamento che mi hanno dato
sono sceso attraverso la finestra sul retro.
Sono andato fino in campagna con grandi propositi.
Ma là ho trovato solo erbe e alberi,
e quando c’era gente era uguale all’altra gente.
Mi allontano dalla finestra, mi seggo su una sedia. A che devo pensare?

Che cosa so di quel che sarò, io che non so cosa sono?
Essere ciò che penso? Ma penso di essere tante cose!
E ci sono tanti che pensano di esser la stessa cosa che non ce ne possono essere tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si credono in sogno geni come me,
e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno,
e non resterà che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze!
Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo?
No, neppure in me…
In quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte e nobili e lucide
– sì, proprio alte e nobili e lucide -,
e magari anche realizzabili,
non vedranno mai la luce del sole reale né troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo,
in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai scritto.
Ma sono, e forse resterò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non era fatto per questo;
sarò sempre soltanto quello che aveva qualità;
sarò sempre quello che si aspettò gli aprissero la porta in una parete senza porta
e cantò la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentì la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me? No, né in niente.
Che la Natura mi sparga sulla testa ardente
il suo sole, la sua pioggia, il vento che mi trova i capelli,
e il resto che venga se verrà, o se deve venire, oppure non venga.

Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la Terra intera,
più il sistema solare e la Via Lattea e l’Indefinito.

(Mangia i cioccolatini, piccola;
mangia i cioccolatini!
Bada che al mondo non c’è altra metafisica che la cioccolata.
Bada che tutte le religioni non insegnano più della confetteria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu!
Ma io penso: e quando tolgo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita).

Ma almeno resta, dell’amarezza di ciò che mai sarò,
la calligrafia rapida di questi versi,
portico rotto sull’Impossibile.
Ma almeno riservo a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile almeno nel gesto ampio con cui getto
i panni sporchi che io sono, senza elenco, sul decorso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu che consoli, che non esisti e per questo consoli,
dea greca, concepita come statua vivente,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e mefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e glaciale,
o cocotte celebre del tempo dei nostri padri,
o non so che cosa moderno – proprio non saprei cosa -,
tutto questo, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
me stesso e non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le automobili che passano,
vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
vedo i cani, che anch’essi esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come tutto).

Ho vissuto, studiato, amato e perfino creduto,
e oggi non c’è accattone che io non invidi solo perché non è me.
Guardo gli stracci e le piaghe e le menzogne di ciascuno
e penso forse non hai mai vissuto né studiato né amato né creduto
(perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza far niente di questo);
forse sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è coda al di qua della lucertola agitatamente.

Ho fatto di me quanto non ho saputo,
e quanto potevo fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno subito riconosciuto per chi non ero, e non l’ho smentito e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era attaccata al mio viso.
Quando l’ho tolta e mi sono visto allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho buttato via la maschera e ho dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dalla gestione
perché inoffensivo,
e voglio scrivere questa storia per provare che sono sublime.

Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarti come una cosa fatta da me
e non restassi sempre dirimpetto alla Tabaccheria dirimpetto
calpestando la coscienza di stare esistendo
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno zerbino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il Padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo col disagio che dà la testa girata a metà
e col disagio che dà l’animo quando ha per metà inteso.
Lui morirà e io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.

Poi morirà la strada dove fu l’insegna
e la lingua in cui furono scritti i versi.
Infine morirà il pianeta ruotante in cui tutto ciò avvenne.
In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa simile a gente
continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile stupido quanto il reale,
sempre il mistero del fondo, certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre un’altra cosa, oppure né una cosa né l’altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me.
Mi raddrizzo energico, convinto, umano,
e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario.

Accendo una sigaretta meditando di scriverli
e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri.
Seguo il fumo come una rotta autonoma
e godo, in un momento sensitivo e competente,
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione.

Poi mi reclino sullo schienale della sedia
e continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.

(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
forse sarei felice).
Stabilito questo, mi alzo e vado alla finestra.

L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?).
Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia).
Come per istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto.
Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato «Ciao Esteves!», e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

Fernando Pessoa

(da  Poesie di Álvaro de Campos, traduzione di  Antonio Tabucchi)

Gustave Caillebotte, Giovane uomo alla finestra, 1875

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Faccio i conti con la mia insaziabile voglia di conoscenza, mi piace condividere con gli altri le cose che imparo e confrontarmi, questo blog tenta di raccogliere i pezzi confusi di me.

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