Treno di panna è il romanzo di esordio di Andrea De Carlo, pubblicato nel 1981, la storia di una giovinezza fuori dal comune.
“quasi chiunque avevo incontrato nascondeva progetti e ambizioni che coltivava da chissà quanto tempo. Tutti andavano avanti sordamente, appena intaccati e immalinconiti dalla realtà; convinti di avere il sistema giusto per passare attraverso la rete. La città sembrava attirare e stimolare ogni possibile forma di illusione o ambizione stranamente riposta sul proprio conto. E c’erano le continue dimostrazioni di fantasie già realizzate, fisse e in movimento; su scale diverse.”
Giovanni, un ragazzo italiano sbarca a Los Angeles in cerca di fortuna. Solo, senza soldi, ma dotato di una sorprendente sensibilità, Giovanni si adatta ai mestieri più umili: ragazzo sandwich, cameriere, insegnante d’italiano. Intanto osserva e coltiva i suoi sogni. E proprio nella scuola dove da poco lavora, l’icona dell’America tanto agognata si rivela ai suoi occhi nei panni di Marsha Mellows, famosa e bellisima attrice, che comincia a prendere lezioni da lui. Così, dopo aver soggiornato nei più improbabili alberghi ai lati di immense freeway inghirlandate di lampioni e insegne al neon, a Giovanni si schiudono d’improvviso le porte delle grandi ville hollywoodiane. Ed è in una sola sera, alla festa mondana a cui Marsha lo trascina, che si giocherà tutto il suo destino. Davanti alla distesa di luci di Los Angeles, che sembrano, per una volta, brillare in lontananza solo per lui…
Italo Calvino nella quarta di copertina dell’edizione originale scrive :
“L’insaziabilità degli occhi che vedono lo spettacolo del mondo multicolore ingigantito come attraverso la lente di ingrandimento. È questa la giovinezza che De Carlo racconta.”
La trama in questo romanzo è pressappoco inesistente, è più il racconto di un’esperienza che la scrittura di De Carlo rende piacevole. Sembra un libro banale, ma nasconde tanti input di riflessione. Ricorre, come in altri suoi romanzi, il tema dell’evasione, viene esaltata l’osservazione di ciò che ci circonda, a cui non siamo più abituati, nello stesso tempo non basta guardare fuori, andare oltre, se non si riesce o si evita di guardare il dentro.
In generale le recensioni su questo libro non sono molto positive, quelle poche, però, sono molto entusiaste.
Uno
Alle undici e venti di sera guardavo Los Angeles dall’alto: il reticolo infinito di punti luminosi. Stanco com’ero cercavo di seguire la vibrazione dei motori, così come arrivava al mio sedile attraverso la struttura di metallo in tensione. Ero sicuro di scoprire qualche cambiamento improvviso di ritmo, o vuoto di frequenza. Cercavo anche di leggere le scritte al neon in basso, man mano che venivano a galla nel buio; i contorni delle freeways vicino al mare.
Non mi piaceva girare in circoli nel vuoto, inclinato di tre quarti e quasi senza equilibrio; sospeso in aria per pura brutalità di motori. Non mi piacevano le fodere gialle a fiori viola dei sedili, l’effetto d’insieme che creavano fila dopo fila. Non mi piacevano le hostess che parlavano tra loro e si annodavano foulards al collo e guardavano orologi senza occuparsi dei passeggeri.
Siamo scesi ancora, quasi a picco, e la prospettiva mi slittava da tutti i lati. Questo più che paura mi faceva rabbia. Tenevo le mani strette ai braccioli, la testa all’indietro, le gambe distese. Avevo la nausea e volevo essere altrove.
C’era una ragazza seduta di fianco a me con una vera faccia di luna: occhi stretti e piccoli, guance larghe. Leggeva un libro e non guardava fuori. Le sembrava scontato atterrare senza problemi. Andavamo giù come precipitare.
Alla fine siamo arrivati in basso, quasi sopra le case. Siamo rollati sulla pista. Attraverso il vetro spesso ho visto la pioggia sull’aeroporto, luci di altri aerei nell’acqua.
Ho guardato le hostess per capire quanto erano sollevate. Sorridevano false; con soprabiti di cammello sulle divise blu e rosa della Queen Jemina Airlines.
Con la mia borsa fotografica a tracolla, sono passato per il tubo grigio di collegamento. Mi sono infilato nel bagno della sala arrivi a guardarmi la faccia.
La luce al neon era falsa e piatta: sembravo teso e stanco più che in realtà. Nemmeno la mia abbronzatura veniva fuori come mi ero immaginato. Mi sono passato il pettine tra i capelli, che ho sottili e sensibili all’umidità. Li ho tirati indietro sulla fronte, per controllare la stempiatura. Considerato che avevo venticinque anni e tre mesi, c’era abbastanza spazio libero sopra la linea delle sopracciglia.
Gli occhi sotto le sopracciglia invece erano molto azzurri, come capita mi diventino di mattina presto, o dopo un viaggio lungo o scomodo. Non mi sono sembrati privi di luce o di profondità. Ho provato due o tre espressioni allo specchio: dilatato le narici, piegato gli angoli della bocca, gonfiato le guance. Ho controllato i due profili: sinistro e destro, in successione ravvicinata. Alla fine qualcuno è scalpicciato dentro; sono uscito nella sala arrivi.
Nel 1988 è stato tratto il film omonimo, diretto da Andrea De Carlo, con Sergio Rubini e Carol Alt.
Giovanni Maimeri un giovane musicista italiano, desiderando di avere successo in America con le sue canzoni, si reca a New York, fidando sulle premesse di un amico, che vive là e dovrebbe essere già ben introdotto nell’ambiente musicale. Giunto in America, Giovanni è costretto a trovare alloggio in uno squallido alberghetto ed entra subito a contatto con la dura realtà americana: nessun editore di musica vuole neppure riceverlo e per di più due portoricani armati di coltello lo derubano della chitarra e dei soldi. Cosicché, per sopravvivere, accetta un posto di cameriere in un ristorante elegante dove un direttore italiano sfrutta spietatamente i suoi dipendenti, appartenenti a svariate nazionalità, facendoli lavorare con l’incubo del cronometro (15 minuti per cliente). Giovanni allaccia intanto un legame sentimentale con Jill, la cassiera del locale, aspirante attrice. Successivamente, esasperato per le stressanti condizioni di lavoro, Giovanni si licenzia dopo una violenta scenata con il direttore del locale. Viene assunto, poi, come insegnante di italiano in una scuola linguistica di lusso. Qui, in un altro ambiente esasperante, a Giovanni viene affidata una nuova allieva, la celebre bellissima attrice-cantante Marsha Mellows, che lo incanta subito con il suo fascino. Sedotto da Marsha, lascia Jill e diventa insegnante privato di italiano in casa della diva, che s’interessa gentilmente a lui e lo tratta con molta amicizia. Una sera ad una gran festa data proprio per Marsha, Giovanni ha la sorpresa di sentirle cantare, davanti ad un pubblico entusiasta, la canzone che egli aveva composta per lei. Potrebbe essere per lui l’occasione tanto attesa del successo sognato, ma egli lascia il locale: l’America non lo interessa più; lo ha deluso e, abbandonato tutto raggiunge un tipo strambo, che sta partendo in mongolfiera per la Patagonia, e si imbarca con lui per lo strano viaggio.