Mare delle verità è un romanzo scritto da Andrea De Carlo, pubblicato nel 2006, una narrazione impegnata, ma allo stesso tempo avventurosa.
“Ho pensato che in fondo non avevo nessuna pretesa di certezze, e nemmeno di approssimazioni di certezze; che preferivo mille volte farmi guidare dal destino e dall’istinto in territori pericolosi piuttosto che sforzarmi di coltivare i frutti senza sapore del buonsenso.”
Dopo la morte di un illustre scienziato, padre dei due fratelli, si parte alla ricerca di un suo un manoscritto rimasto inedito, che dall’Africa accusa Vaticano e potenze occidentali e che potrebbe apportare un contributo importante nel dibattito sempre attuale nel mondo d’oggi circa i problemi ecologici, ambientali, dell’inquinamento, della sovrappopolazione, della fame, del controllo delle nascite, dell’Aids.
Un giorno nevoso di fine novembre Lorenzo Telmari, ex skipper e giramondo ritiratosi in campagna a scrivere un libro, riceve una telefonata da suo fratello che gli comunica che il loro padre Teo, virologo di fama internazionale, è morto. Lorenzo si precipita a Roma, dove scopre di aver ereditato un segreto scottante, con vaste implicazioni etiche e politiche. Presto è risucchiato in una vicenda attualissima e inquietante, che si snoda, senza un attimo di tregua, tra complicate relazioni famigliari, intrecci di politica e religione, una appassionata storia d’amore, fughe per terra e per mare fino alle coste del Portogallo meridionale.
Il romanzo risalta la differenza fra i due fratelli. Fabio, risucchiato dal ritmo di vita preso da mille cose da fare, cerca sempre un modo di apparire e di mettersi in mostra e non ha mai tempo per nient’altro che non sia la politica.
Lorenzo è invece un ex-skipper che vive a modo suo, rifiutando il conformismo e seguendo l’istinto.
“Non riuscivo a credere che una stanza potesse ospitare sensazioni tanto intense ed estese per poi tornare nel giro di poche ore a essere un contenitore perfettamente neutro, occupabile da qualunque altro viaggiatore capitasse nell’albergo.”
Dopo aver affrontato De Carlo con “Due di due“, ho scelto di leggere questo romanzo perché la trama mi calzava ed infatti è me. Magari non è un capolavoro e il finale ti lascia ancora con l’acquolina in bocca, ma vale la pena leggerlo. Molte delle recensioni lette non sono favorevoli, c’è da dire che Andrea De Carlo o si ama o si odia, a me piace parecchio, ha uno stile preciso e personale. Il libro si legge con facilità, si potrebbe definire un eco-thriller, da leggere sicuramente.
II 24 novembre mattina fuori c’erano almeno quaranta centimetri di neve, e mio fratello ha telefonato per dirmi che nostro padre era morto.
Quando mi ero svegliato e avevo aperto gli scuri della finestra ero rimasto a guardare il bianco che copriva in modo uniforme alberi e campi e boschi e case lontane, fino all’orizzonte dove le ondulazioni delle colline si confondevano con il grigio molto chiaro del ciclo. Avevo ascoltato il silenzio, inspirato l’aria gelata fino in fondo ai polmoni, soffiato fuori vapore. Alcuni fiocchi mi si erano posati sulla fronte e sul petto e sulle mani, il freddo mi era passato sulla pelle nuda. È una zona dove nevica con troppa frequenza perché uno possa provare il senso di magia di quando era bambino, eppure ogni volta mi affascina il modo in cui i suoni si smorzano e le distanze si allungano, i legni secchi e i rovi e le pietre e le buche e i crepacci scompaiono sotto la superficie bianca in un’illusione di paesaggio perfettamente omogeneo. Sapevo che lo stupore per la trasformazione non sarebbe durato a lungo, e che presto sarebbero affiorate ogni genere di complicazioni pratiche, ma per i primi minuti mi ero lasciato incantare, mentre mi vestivo con molti strati di cotone e lana.
In cucina avevo messo a bollire del tè e preparato del porridge di avena, avevo fatto flessioni sulle gambe e sulle braccia per scaldarmi. Mentre mangiavo avevo sfogliato un saggio sulle correnti oceaniche che mi serviva per il libro che stavo scrivendo sulla sopravvivenza in mare aperto dopo un naufragio. Poi ero andato a controllare il telefono, ed era perfettamente muto. Me l’aspettavo, perché i fili corrono per qualche chilometro attraverso un bosco, basta un temporale o qualche folata di vento o appunto la neve a far cadere la linea. Ogni volta ci vogliono giorni prima che qualcuno venga a ripararla, ammesso di avere la pazienza di sollecitare il servizio guasti più volte al giorno. D’altra parte restare isolato non mi dispiaceva: mi faceva sentire al riparo dalle ragioni incalzanti del mondo, le allontanava fino a renderle quasi incomprensibili.
Ho tirato fuori il mio cellulare dalla tasca del giaccone in cui lo tenevo, vicino all’ingresso: mi ero dimenticato di ricaricarlo, il simbolo della batteria lampeggiava sul minuscolo schermo. C’era anche il simbolo “chiamate perse”, ma prima che potessi controllare di chi erano, la suoneria è partita con la musichetta pseudo-caraibica che avevo scelto per esclusione tra le opzioni disponibili. Mi sono infilato gli stivali alti di gomma e sono uscito nella neve davanti a casa, verso l’albero dove si riceve meglio il segnale. Affondavo a ogni passo, era come camminare su un altro pianeta.
Mio fratello Fabio era più concitato del solito: ha detto “Lorenzo, è da ieri sera che provo a chiamarti, sul fisso e sul cellulare”.
Ho detto “II fisso è guasto per la neve, e il cellulare non riceve dentro casa”, nel tono semicantilenato di chi ripete informazioni già ampiamente disponibili.
“Papa è morto” ha detto lui.
“Cosa?” ho detto, con un’immagine mentale di nostro padre nel soggiorno di casa sua mentre si girava verso di me a dire qualcosa. La neve mi arrivava alle gi-nocchia, gli allori erano piegati sotto una massa bianca che rischiava di spezzarli.
“Sì” ha detto mio fratello.
“Quando?”; una a caso delle molte domande parzialmente formate che mi passavano a scatti nella testa.
“Verso le dieci.” Aveva fretta, come sempre: c’erano questioni almeno altrettanto importanti che lo aspettavano al di là della nostra telefonata.
“Ma come è successo?” Anche se non avevo mai pensato che nostro padre potesse letteralmente vivere per sempre, era stato nel mio paesaggio mentale da quando ero nato, attraverso ogni mio periodo e fase: riconfigurare un mondo senza di lui non era semplice.
“Infarto del miocardio” ha detto mio fratello.
“Dove?”
“A casa, nel suo studio. Luz ha chiamato subito l’ambulanza, ma quando sono arrivati non c’era più niente da fare. Non l’hanno neanche portato via. ”
“Ah” ho detto. Ho preso un lungo bastone da sotto il portico, ho cominciato a dare colpi ai rami di alloro piegati. La massa di neve si staccava a blocchi farinosi, i rami ondeggiavano. Ho battuto con più energia: alcuni rami si sono liberati e sono tornati di slancio verso l’alto, mi hanno scaraventato neve in faccia e nei capelli, nel collo del golf.
“Si può sapere cosa stai facendo?” ha detto mio fratello. “Cos’è questo casino?”
“Niente. È la neve.”
“Quando pensi di venire?” ha detto lui, morso ai fianchi e alle caviglie dall’impazienza.
“Subito. Adesso.” Mi sentivo in colpa per non essere già lì, indipendentemente dal suo tono, eppure non ho resistito a dare un paio di altri colpi con il bastone per liberare gli allori. Piccole slavine sono scivolate sopra le foglie verde scuro tra nuvole polverizzate, per affondare nello strato bianco soffice che copriva il terreno.
“Sbrigati” ha detto mio fratello. “Non posso occuparmi di tutto io.”
“Parto, parto. Il tempo di fare duecentosessanta chilometri, e arrivo.”