Non è un momento preciso. È un lento allontanarsi.
Un giorno ci guardiamo da fuori, e ci accorgiamo che siamo diventati l’immagine che gli altri si aspettavano.
Questa riflessione si è fatta spazio dentro di me con forza nuova, dopo una rilettura de Il ritratto di Dorian Gray.
C’è qualcosa che cambia, ogni volta. Wilde, con la sua scrittura tagliente e seducente, non smette mai di rivelare. E questa volta, più che mai, ho sentito la vertigine che attraversa tutta l’opera: la frattura tra ciò che siamo e ciò che vogliamo apparire.
Dorian non si accorge del momento esatto in cui smette di appartenersi. È un gesto impercettibile, una resa morbida. Comincia a vivere per lo sguardo degli altri, e da lì in avanti tutto si sgretola. La sua bellezza resta sì, ma a che prezzo?
Il suo è un patto singolare: non con il diavolo, come in altre grandi narrazioni, ma con il proprio ritratto, con la propria immagine, con il desiderio che questa invecchi al posto suo.
E così accade: ogni colpa, ogni turbamento, ogni segno lasciato dalla vita si imprime sulla tela. Dorian rimane giovane, intatto, ma la giovinezza che trattiene è solo un simulacro, una maschera, una fuga dal tempo.
Ed è qui che ho sentito qualcosa toccarmi in profondità.
Perché non è forse questa una delle ossessioni del nostro tempo? La bellezza come valore assoluto, il corpo come biglietto da visita. La paura di cambiare, di perdere brillantezza, di non essere più all’altezza dello sguardo altrui.
Il ritratto di Dorian Gray non parla solo di bellezza. Parla della nostra incapacità di attraversare il tempo, dell’illusione che si possa rimanere intatti senza pagare un prezzo.
Parla del rischio, attualissimo, di cedere all’immagine, alla finzione, all’approvazione e nel farlo, dimenticare chi siamo.
Wilde ci sussurra una verità scomoda e amaramente attuale:
nessuna perfezione esteriore può salvarci, se dentro smarriamo l’autenticità.
A forza di indossare maschere, rischiamo di non riconoscere più il volto che c’è sotto, non siamo quadri da conservare in eterno, né storie da esibire in vetrina.
Siamo esseri umani: vivi, imperfetti, vulnerabili ed è proprio lì, nella crepa, nella verità che emerge quando smettiamo di fingere, che risplende qualcosa di irripetibile: noi stessi.
Il tempo, alla fine, non ci ruba la bellezza.
La rivela.
Scritto da Mariangela Galletta, trovate i suoi interessanti scritti su Substack
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