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SEI QUI: Home » Libro Caffè » Eventi e Curiosità sui Libri » Premi Letterari » Premio Campiello 2019: Il vincitore
Premi Letterari

Premio Campiello 2019: Il vincitore

15 Settembre 2019Updated:1 Ottobre 2019Nessun commento9 Mins Read
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Sabato 14 settembre, a Venezia sul palco della Fenice, da una giuria composta da 300 lettori anonimi, è stato decretato il vincitore della 57esima edizione del Premio Campiello, premio letterario, istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto, che viene assegnato a opere di narrativa italiana.

Il vincitore è Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri, 73 voti), al secondo posto Carnaio di Giulio Cavalli (Fandango, 60 voti), al terzo La vita dispari di Paolo Colagrande (Einaudi, 54 voti), il quarto posto Il gioco di Santa Oca di Laura Pariani (La Nave di Teseo, 52 voti), chiudere la cinquina Lo stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle grazie, 38 voti).

Il Premio Campiello Opera Prima 2019 è stato vinto da Hamburg – La sabbia del tempo scomparso di Marco Lupo (Il Saggiatore).
Il Premio Campiello Giovani 2018 è stato vinto il cagliaritano Matteo Porru con il suo racconto “Talismani“.
Il Premio Fondazione Campiello (il Campiello alla carriera) è stato assegnato a a Isabella Bossi Fedrigotti, scrittrice milanese.

La serata la finale del Campiello è stata trasmessa in diretta televisiva su Rai 5, condotta da Andrea Delogu.

Conosciamo i protagonisti di questa edizione del Premio Campiello 2019:

Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri).
Un uomo solo, tormentato, compie un efferato omicidio perché obbligato dalle convenzioni del suo tempo. Da lì scaturisce, inarginabile, il suo genio artistico. Gesualdo da Venosa, il celebre principe madrigalista vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, è il centro attorno a cui ruota il congegno ipnotico di questo romanzo gotico e sensuale. Come può, è la domanda scandalosa sottesa, il male dare vita a tale e tanta purezza sopra uno spartito? Per vendicare l’onore e il tradimento, il principe di Venosa uccide Maria D’Avalos, dopo averla sposata con qualche pettegolezzo e al tempo stesso con clamore. Fin qui la Storia. Il resto è la nostalgia che ne deriva, la solitudine del principe: è lì, nel sangue e nel tormento, che Andrea Tarabbia intinge il suo pennino e trascina il lettore in un labirinto. Questa storia ? è ciò che il lettore scopre sbalordito ? ci parla dritti in faccia, scollina i secoli e arriva fino al nostro oggi, si spinge fino a lambire i confini noti eppure sempre imprendibili tra delitto e genio.

Andrea Tarabbia, nato a Saronno nel 1978. Ha fatto parte della redazione della rivista Il primo amore, ha collaborato con le riviste L’Indice dei libri del mese, IL, Vanity Fair, Liberazione, Playboy. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi La calligrafia come arte della guerra (2010), Il demone a Beslan (2011), Il giardino delle mosche (2015; Premio Selezione Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e il saggio narrativo Il peso del legno (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto Diavoleide di Michail Bulgakov. Madrigale senza suono è il suo primo romanzo per Bollati Boringhieri. Vive a Bologna.

Carnaio di Giulio Cavalli (Fandango).
Giovanni Ventimiglia è un pescatore, da tutta la vita raccoglie nelle sue reti acciughe e granchi, anche se negli ultimi anni il mare è diventato avaro e sulla sua piccola nave non ha più un equipaggio. Il pesce lo vende nel mercato di DF, un paesino aggrappato alla costa come tanti, con un parroco che fa la predica ma va a puttane, un sindaco che è padre di sindaco, un’emittente locale che scalda i cuori delle casalinghe con il suo conduttore brizzolato. Ma un giorno di marzo Giovanni attraccando al pontile trova un cadavere, un uomo che in ammollo dev’essere stato per giorni, un ragazzo non di quelle parti, forse dell’Est o del Sud, uno di colore comunque. E dopo di lui, i ritrovamenti di cadaveri sbiaditi dall’acqua, tutti giovani, tutti neri si susseguono, senza che le autorità locali riescano a trovare un filo, cumuli di cadaveri da seppellire, identificare, gestire. E da DF chiedono aiuto, ma da Roma prendono tempo, impongono accertamenti, tanto che, per non venire sommersi, i cittadini saranno costretti a escogitare un sistema per affrontare l’emergenza, e poi nel tempo trasformarla in profitto. Trovate la recensione qui.

Giulio Cavalli , nato a Milano il 26 giugno 1977, è un attore, scrittore, regista teatrale e politico italiano, dal 2007 vive sotto scorta a causa del suo impegno contro le mafie. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta, tra i quali ricordiamo Nomi, cognomi e infami (2010), L’innocenza di Giulio (Chiarelettere 2012), Mio padre in una scatola di scarpe (2015). È stato membro dell’Osservatorio sulla legalità e consigliere regionale in Lombardia. Scrive su Left, Fanpage e sull’Espresso. Con Fandango Libri ha pubblicato nel 2017 Santamamma.

La vita dispari di Paolo Colagrande (Einaudi).
Buttarelli legge il mondo come un libro a cui mancano le pagine pari o, se ci sono, rimangono indecifrabili. La sua vita, oscurata per metà e ristretta nello spazio elementare di una stanza e di una strada, è un tragicomico susseguirsi di inciampi e di intuizioni, di vessazioni e di casualità. Quando Buttarelli scompare – e intorno alla sua figura si crea un alone di mistero – non resta che raccogliere, per tentare di fare un po’ di chiarezza o forse per aumentare la confusione, la testimonianza del suo amico nullafacente Gualtieri. Ecco che allora si snoda una trama di malintesi e incastri rovinosi, sempre all’insegna del paradosso: la silenziosa guerra con la preside Maribèl, la passione per Eustrella, il fidanzamento simultaneo con otto – otto – compagne di scuola, gli strambi insegnamenti esistenziali impartitigli dal padre putativo, il matrimonio con Ciarma, l’infatuazione per una certa Berengaria. «Buttarelli provava a fare quello che vedeva fare agli altri, con enorme fatica. A volte riusciva a reggere la parte per un tratto breve, ma era come se a un certo punto si ritrovasse nel fitto di un bosco senza più il sentiero tracciato, e allora era più prudente tornare indietro». Il mondo, visto dagli occhi di Paolo Colagrande, è un posto in cui l’uomo è stato messo per sbaglio. O per far ridere qualcuno che, di nascosto e da lontano, lo sta osservando.

Paolo Colagrande è nato a Piacenza nel 1960. Il suo romanzo d’esordio è Fìdeg, pubblicato per Alet edizioni nel 2007, ha vinto il Premio Campiello nella sezione Opera prima e finalista Premio Viareggio), altre opere sono Kammerspiel (Alet 2008), Dioblú (Rizzoli 2010), Senti le rane (nottetempo 2015, Premio Campiello Selezione Giuria dei Letterati).

Il gioco di Santa Oca di Laura Pariani (La Nave di Teseo).
Autunno 1652. Un pugno di uomini, stanchi di subire le angherie dei nobili e dei soldati che razziano i paesi della brughiera lombarda tra una battaglia e l’altra, si raccoglie intorno a Bonaventura Mangiaterra, un capopopolo che affascina i suoi compagni con la Bella
Parola, una versione personale e ribelle delle storie della Bibbia. Bonaventura diventa presto una leggenda tra i contadini e i poveri: ha carisma, saggezza e una lingua sciolta con cui predica la libertà, in breve la sua banda cresce di numero e forza, minacciando il potere costituito. Per fermare la rivolta, l’Inquisizione e i nobili della zona schierano infide spie e un esercito poderoso, ma quando riusciranno ad arrivare a Bonaventura, una sorpresa metterà in discussione tutte le loro certezze.
Vent’anni dopo, la cantastorie Pùlvara ripercorre le stesse brughiere che hanno vissuto l’epopea di Bonaventura e della sua banda. La donna si era unita in gioventù a quegli uomini valorosi travestendosi da maschio e ora, in cambio di ospitalità, racconta ai contadini le loro imprese. Mano a mano che quelle gesta eroiche rivivono nelle sue parole, Pùlvara si avvicina sempre di più, come in un gioco che diventa reale, al mistero della vita di Bonaventura Mangiaterra. Un romanzo di ribellione e libertà, la storia di un sogno di giustizia e di una donna coraggiosa che sfida le convenzioni del suo tempo.

Laura Pariani è nata a Busto Arsizio nel 1951. Ha conseguito una laurea in filosofia all’Università degli Studi di Milano. si è dedicata dagli anni settanta alla pittura e al fumetto; dagli anni novanta soprattutto alla narrativa. Ha collaborato nel corso del tempo a vari giornali e riviste: La Stampa, Avvenire, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore e Diario, su cui ha tenuto per anni una rubrica intitolata Che storie sono queste? Tra i suoi ultimi romanzi: Questo viaggio chiamavamo amore (2015), Che Guevara aveva un gallo (insieme a Nicola Fantini, 2016), “Domani eÌ un altro giorno” disse Rossella O’Hara (2017), Di ferro e d’acciaio (2018). Per la sua opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui Premio Grinzane Cavour, Premio Selezione Campiello, Premio Piero Chiara, Premio Elsa Morante, Premio Mondello. Ha all’attivo una ventina di opere teatrali rappresentate in Italia e all’estero. Ha partecipato alla sceneggiatura del lm di Gianni Amelio CosiÌ ridevano (Leone d’oro 1998).

Lo stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle grazie).
Primi anni Venti di questo secolo nella «Città di Dio», decadente metropoli che assomiglia molto a Roma. Un uomo di circa settant’anni osserva dal settimo piano della sua palazzina le vicende dello «Stradone»; i tanti personaggi che lo percorrono incarnano tutte le forme del «Ristagno» della nostra società. Invecchiamento e conformismo, razzismo e sessismo, sopravvivenze popolari e «trentelli» rampanti, barbagli di verità, etnie in conflitto, il fantasma dell’integralismo islamico, la liquefazione di sinistre e destre e della classe media in un unico «Grande Ripieno»: nulla sfugge a questo narratore disordinato ma perspicace, che pare saper restituire meglio di chiunque – con ironia, cinismo, nostalgia, umorismo – il non senso del nostro presente. Racconta anche, l’uomo senza nome, la propria esistenza di «Novecentesco», aspirante storico dell’arte, funzionario di Ministero, uomo che ha creduto nel comunismo e poi si è fatto socialista e corrotto, con i suoi amori e, oggi, l’ossessione per la vecchiaia, la malattia, la pornografia; e ricostruisce infine con documenti veri o quasi-veri la storia di un quartiere i cui abitanti, operai e proletari, per secoli e fin oltre la metà del Ventesimo, hanno prodotto qui i mattoni di cui è fatta la Città: il quartiere più comunista e antifascista di tutti, forse visitato da Lenin – personaggio inatteso di queste pagine – nel 1908.

Francesco Pecoraro, nato a Roma, il 16 settembre 1945, è uno scrittore, poeta e architetto italiano. Ha pubblicato per Ponte alle Grazie La vita in tempo di pace (2013; premio Viareggio, tradotto in cinque lingue). Ricordiamo gli altri suoi libri: i racconti di Dove credi di andare (Mondadori, 2007), le prose di Questa e altre preistorie (Le Lettere, 2008), le poesie di Primordio vertebrale (Ponte Sisto, 2012).

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Faccio i conti con la mia insaziabile voglia di conoscenza, mi piace condividere con gli altri le cose che imparo e confrontarmi, questo blog tenta di raccogliere i pezzi confusi di me.

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