Quante volte abbiamo sentito dire o ci siamo ripetuti:
“Ma davvero nessuno sapeva cosa stava succedendo in Germania ed in Italia agli ebrei?”
È una domanda che tornerà puntuale in un futuro che noi forse non vedremo.
Eppure, già allora qualcosa si sapeva, i segnali c’erano, dispersi tra articoli sui giornali, voci che filtravano dai rifugiati, rapporti che venivano ignorati, minimizzati o bollati come propaganda. Non era il buio, era l’indifferenza. Ma gli abbiamo lasciato il beneficio del dubbio.
Oggi, invece, viviamo nell’epoca dell’informazione istantanea. Abbiamo immagini, video, testimonianze in diretta. Giornalisti che rischiano, e spesso perdono, la vita per raccontarci cosa succede davvero. Eppure, davanti a certe tragedie il silenzio resta uguale al passato.
Forse perché siamo giocattoli fragili in un ingranaggio troppo più grande di noi. Ci illudiamo di avere voce, ma spesso è solo un sussurro nel frastuono di chi comanda, di chi muove fili invisibili e decide chi resta e chi scompare.
E se un giorno toccasse a noi? Se fossimo noi i prossimi a essere cancellati?
Cosa possiamo fare? La verità è che non lo so. Ma so questo: finché ci poniamo la domanda, non è tutto perduto. Il giorno in cui smetteremo di farcela… quello sarà il giorno in cui avremo perso davvero.
L’invasione di Gaza è in corso, l’occupazione totale è questione di ore. E con Gaza finirà anche l’ultima illusione che potesse esistere uno Stato chiamato Palestina. Quello che resterà, se resterà qualcosa, sarà un brandello di Cisgiordania murato vivo, circondato da check-point, reticolati, e apartheid legalizzato.
Questa non è una guerra, è un genocidio in diretta streaming, documentato minuto per minuto. Non servono storici, bastano i telefonini. Migliaia di bambini cancellati con un clic di drone, donne polverizzate sotto le macerie, giornalisti uccisi per il solo reato di raccontare. È uno sterminio a cielo aperto, visibile a occhio nudo.
Gaza è rasa al suolo. Gli ospedali distrutti. I convogli umanitari bloccati. Il cibo finito. Le medicine anche. Le persone non muoiono solo per le bombe, muoiono di fame, di sete, di infezioni non curate. E tutto questo non è un sospetto: è filmato, trasmesso, provato.
Sappiamo tutto. Nessuno potrà dire “io non sapevo”.
Come nessuno può dimenticare gli orrori del 7 ottobre, tragici e reali. Ma oggi, quel giorno è stato piegato per giustificare un’operazione di conquista, che porta con sé i segni di un’azione pianificata e sistematica di annientamento. La stessa parola “genocidio”, pesantissima, viene ormai pronunciata da giuristi, esperti, osservatori internazionali. Oggi è la “soluzione finale”, per davvero. Solo che a portarla avanti non sono più i nazisti di allora, ma un governo, quello israeliano, che sembra aver appreso troppo bene la lezione.
E l’Occidente? Balbetta. L’Europa si gira dall’altra parte con lo zelo dei complici. Gli Stati Uniti, che pure fingono ogni tanto di alzare il sopracciglio, continuano a finanziare e armare. Francia, Spagna, Inghilterra qualche parola la dicono, per carità, ma a microfoni spenti fanno spallucce. La Germania nemmeno quelle: zitta e schierata, travolta dal senso di colpa eterno per la Shoah. E l’Italia? L’Italia fa l’Italia. Impegnata tra il rafting della Meloni e il parapendio di Lollobrigida, il Ministro degli Esteri non parla. Il Parlamento tace. La politica ha disertato, la coscienza pure. Nessuno prende posizione. Nessuno sta con chi muore. Boicottano la Russia per l’invasione dell’Ucraina, mentre con Israele ci fanno affari, strette di mano e contratti miliardari. Due pesi, due misure, una sola vergogna.
Parlano di democrazia. Ma quale? Democrazia non è il diritto di votare il tuo carnefice. Non basta una scheda elettorale per lavarsi la coscienza. E se un governo democraticamente eletto commette un genocidio, non diventa meno colpevole, diventa solo più ipocrita.
Attenzione, nessuno assolve Hamas. I suoi crimini sono sotto gli occhi di tutti. Ma i crimini di uno non cancellano quelli dell’altro. E oggi, nel nome della lotta al terrorismo, si sta sterminando un popolo intero.
E quando tutto sarà finito, o almeno quando non ci sarà più nulla da bombardare, allora arriveranno le commemorazioni, le mostre fotografiche, i film al cinema, i post indignati. Ma sarà tardi. Troppo tardi.
Nel frattempo, l’Europa sta implodendo, travolta dalle sue stesse menzogne, impantanata in un nazionalismo di ritorno e un’ipocrisia letale. Il mondo brucia – India, Pakistan, Ucraina, Sudan – ma Gaza è il simbolo. Il popolo palestinese sarà il martire dimenticato, cancellato dalla Storia da chi avrebbe dovuto difendere i diritti umani.
Che fare? Almeno questo: non tacere. Non voltarsi. Non fingere di non vedere. Il 9 maggio sarà simbolicamente “l’ultimo giorno di Gaza”. Un giorno di lutto e di vergogna. Alziamo la voce, usiamo i social, scendiamo in piazza, facciamo sentire, al governo italiano e al governo europeo, tutto il nostro dolore. Perché dire “io non ci sto” è il primo passo per non perdere del tutto la nostra umanità. Lo dobbiamo almeno alla nostra coscienza.
Oggi ho visto un lenzuolo con una frase che mi ha colpito:
“Praticamente loro ammazzano 60.000 persone, ma lo stronzo sei tu, perché se osi dire di smetterla, sei antisemita.”
Una provocazione dura, brutale. Ma è proprio nelle provocazioni che a volte si annida la verità scomoda.
Quando parliamo del Giorno della Memoria, quando ripetiamo con convinzione “mai più”, non può essere un “mai più” a senso unico, che vale solo per gli ebrei. Quel “mai più” deve essere universale, rivolto a qualsiasi popolo, a qualsiasi essere umano, ovunque nel mondo.
Io non riesco a distinguere tra esseri umani di serie A e serie B. Israeliani, ebrei, palestinesi, musulmani, indiani, buddhisti, italiani, cattolici, sono tutte persone. Ognuna con la propria dignità, i propri diritti, la propria umanità. E sì, in ogni popolo c’è il bene e il male, perché il bene e il male non abitano le bandiere, abitano l’uomo.
E allora, se provo dolore per ciò che accade oggi in Palestina, non posso e non devo essere tacciata di antisemitismo. Non è antisemitismo piangere per un bambino palestinese ucciso, per una madre che ha perso tutto. È semplicemente umanità.
Lo dico chiaramente: sono antisionista. Ma non nel senso strumentale che molti attribuiscono a questa parola. Mi oppongo al fondamentalismo sionista, a quella forma radicale che, nel perseguire un ideale nazionale, calpesta altri popoli. Il sionismo nasce come movimento politico per dare agli ebrei una patria e questo nessuno gli ha mai negato questo diritto. Ma se quel sogno si realizza sradicando, opprimendo e cancellando altri esseri umani, allora è un sogno che ha smarrito la propria umanità.
Ricordo quando da bambina mi parlavano di Gerusalemme, una città sacra a tre religioni, ne ero affascinata. Immaginavo una terra di pace, un luogo che incarnava la convivenza tra culture e visioni del mondo. Mi dicevo: “Se può accadere lì, può accadere ovunque.” Ma poi sono cresciuta, ho studiato, ho letto, ho ascoltato. E sono stata brutalmente riportata alla realtà, quel posto di pace non esisteva, quella convivenza non era per niente pacifica, ma forzata e indesiderata.
Eppure continuo a domandarmi: quanto sarebbe stato bello se quella mia ingenuità infantile fosse stata reale.
Immaginate una Gerusalemme davvero condivisa. Una terra che, invece di essere contesa, fosse diventata simbolo vivente di pace.
Un faro per l’umanità, non un campo di battaglia.
Un laboratorio di coesistenza, non un teatro di vendette.
Immaginate!
Nessuno mai leggerà questo discorso prolisso, o perlomeno non arriverà alla fine. Però lo dovevo scrivere, lo dovevo a me stessa.